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Il paesaggio culturale è un’invenzione meravigliosa.
Perché attraverso il suo riconoscimento a Patrimonio dell’Umanità si può restituire (almeno in parte) il debito di riconoscenza che le nuove generazioni hanno nei confronti di migliaia (o milioni) di uomini che quello stesso paesaggio hanno inconsapevolmente realizzato.
È praticamente l’opposto del concetto classico di bene tutelato dall’UNESCO che definisce un paesaggio naturale (come il Grand Canyon) o un capolavoro realizzato centinaia di anni fa (tipo la Torre di Pisa) come fondamentale per la storia futura del mondo e quindi impegna gli Stati a mantenerlo tale per le generazioni che verranno.
Nel paesaggio culturale invece è stata l’opera incessante ed inconsapevole di tantissime generazioni a consegnare al nostro presente qualcosa di unico che né la natura né il genio singolo di un artista hanno prodotto.
È stata la necessità quotidiana (nel nostro caso la produzione vitivinicola) a creare qualcosa che è utile ma anche “bello”.
Noi non dobbiamo fare proprio niente se non riconoscere l’opera che è stata -direi dipinta- in secoli di fatiche su queste colline.
Le colline delle Langhe e del Monferrato raccontano -a chi le sa guardare- una storia antica di invasioni, razzie, guerre e assedi. Di signorotti locali dispotici e litigiosi, di mire e scontri più grandi tra tante potenze che fecero del Piemonte il loro campo di battaglia. Di vie del sale e vie della fede; di commerci di spezie e sete esotiche e di feroci banditi in agguato nei boschi, quando non di lupi ed orsi. Di pazienti ricostruzioni monacali e di inenarrabili fatiche contadine.
Ci sono le città romane e le ville nuove, i ricetti medioevali e le semplici corti chiuse. I mille campanili di altrettante chiese sparse a portare un alito di speranza e forse protezione a genti smarrite e disperate che affidavano alla fede e a molte altre superstizioni il loro futuro di fame e malattie. Ci sono le masche dispettose, i setmin curativi, le streghe causa di ogni disgrazia (l’ultima fu bruciata a Pocapaglia nemmeno troppo tempo fa) e le pentole d’oro da trovare sotto i castelli per cambiare vita per sempre
Questa collina racconta una storia di fame e ignoranza ataviche consegnata alla letteratura da Fenoglio e da Monti ma anche una storia di malinconica poesia così ben presente nelle tante opere di Cesare Pavese.
Le colline raccontano dunque. A chi le sa guardare e ancor di più a chi le sa fissare in uno scatto che diventa insieme immagine e storia, riproduzione della realtà ed espressione dell’anima. I fotografi, quelli dotati, hanno questo privilegio di essere un medium un tramite tra gli occhi e il cuore.
Io ho avuto il privilegio di lavorare con Harry Gruyaert per dodici giorni.
Harry era qui come tutor di una residenza di 15 fotografi professionisti da tutta Italia, chiamati a fotografare i paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato per conto della Regione Piemonte e di Camera, neonato laboratorio di fotografia di Torino.
Sul campo hanno potuto avvalersi dell'esperienza e della logistica delle tre ATL (Asti Alessandria e Alba), oltre che dell'umile supporto del sottoscrittto.
A maggio avevo fatto lo stesso lavoro con Alex Webb, un alto grandissimo fotografo, però meno concentrato sul paesaggio e più in cerca di persone/situazioni. Un’esperienza dunque davvero completa con due “mostri sacri” dell’agenzia Magnum, con due approcci diversi all’immagine ma la stessa enorme professionalità grazie alla quale diventa tutto più semplice, ma mai facile.
Molti dei ragazzi di maggio sono diventati dei veri fans di queste colline e solo pochi giorni fa tre di loro erano nella Riserva Naturale delle Sorgenti del Belbo a fotografare i lupi che sono (ebbene sì!) tornati nelle Langhe, in un viaggio tra Masche, Formaggio e Pietra di Langa celebrato nell’Estate di San Martino a Paroldo che resta la più bella festa di tutte le nostre colline.
Harry poi non è solo uno dei più grandi fotografi viventi ma pure una persona di rara cultura, conversazione e personale simpatia.
Un uomo con mille aneddoti che parla tre lingue.
Anzi quattro perché le sue foto parlano un linguaggio che chiunque capisce.
Ma nessuno saprebbe ripetere.
Gli parlo di Fenoglio e di Pavese, mentre scarpiniamo la collina di Gaminella in quell’impalpabile confine tra i due mondi letterari, tra i Mari del Sud e il Sinai delle colline. Harry già conosceva Pavese di cui apprezza e afferra le parole spesso folgoranti…nella sua ultima notte in Italia chiederà di dormire proprio al Albergo Roma di Torino, dove Pavese passò il suo ultimo giorno da vivo.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”
Eccola l’identità del Piemonte radicata su queste colline come la pianta del nebbiolo che qui -e solo qui- produce i vini rossi più stupefacenti e longevi del mondo. E i paesi sono centinaia, proprio come le identità che si specchiano in un piatto di ravioli sempre diversi o nelle decine di sfumature del vitello tonnato, un piatto in grado di far convivere gli opposti, proprio come queste colline che da spettro di fame e fuga sono oggi il tempio dell’enogastronomia e del gusto senza mode né tempi.
Forse era questa la pentola d’oro della fortuna.
Una pentola che è stata finalmente trovata.