Tu sei qui
(Breve nota a margine)
Nell’ultima parte della sua vita il grande pittore Eso Peluzzi si ritirò nell’eremo di Monchiero Alto dove dipinse per lo più paesaggi invernali oppure violini.
Il padre difatti era stato un liutaio ma lui non lo aveva mai voluto seguire in quella sua rara abilità.
E così, ormai vecchio a sua volta, cercava attraverso il dono della pittura di evocarlo o forse anche solo di ringraziarlo.
Un modo per - se non costruire - almeno provare a suonare quei violini coi suoi pennelli.
(Fine nota a margine)
Cos’è Extraliscio?
Extraliscio è una band, inconsueta, spiazzante, geniale e antica insieme, composta dal “Re delle Balere” Mauro Ferrara, dal “Principe di tutti i Clarinetti” Moreno il Biondo e dal “perturbante contaminatore” il barbutissimo Mirco Mariani.
Nati nel 2014, la band sta riportando il liscio a nuova vita ma soprattutto sta portando nuovo liscio nella vita, perché sa posare un velo di leggerezza e di ottimismo sulla vita, un velo di cui oggi abbiamo tutti bisogno.
Dunque un’operazione coraggiosa, difficile e altamente impopolare.
Una cosa che, nella mia esperienza, sta a metà strada tra l’eretico duetto del "reazionario" Johnny Cash col "rivoluzionario" Bob Dylan nel 1969 e il meraviglioso vocione di Roy Orbison che nel 1988 si butta entusiasta nei Travelin’ Wilburys...
Cioè una cosa fatta tra lo scandalo e lo stupore che poi però lascia semplicemente storditi e felici.
Extraliscio è una bevanda, a base di Saint Jacques, un liquore toccasana, un elisir da bere da soli coi propri pensieri, servito rigorosamente senza ghiaccio, così buono da far entrare Ermanno Cavazzoni in un sogno o forse meglio in un viaggio onirico, come un novello Baudelaire ...ma senza assenzio e soprattutto senza fiori del male. Del resto nemmeno il Saint Jacques esiste davvero… ma solo perché Cavazzoni ne ha bevuto troppo!
E così io, un alcolizzato impenitente, imparo che si possono sognare altri mondi perfino da sobri.
Extraliscio è un film di Betty Wrong, l’alter-ego (in costume da Wonder Woman) di Elisabetta Sgarbi. Betty che per la proiezione al cinema Mexico di Milano, si toglie gli occhiali da vista e inforca quelli da rockstar, restando però sempre lei: l’unico animatore culturale rimasto in questo paese.
O meglio: l’unica perturbatrice culturale, l’unica in grado di smuovere, agitare e ribaltare le acque stagnanti di troppa cultura di maniera, affondata nelle sabbie mobili del conformismo e del politicamente corretto.
Il film racconta la genesi e le avventure di questa nuova, spiazzante band semi-sconosciuta che ha inventato il punk da balera (o se preferite, il “liscio ribelle”) e che ovviamente in Emilia-Romagna non vuole nessuno, per cui la spediscono a Milano, la Terra Promessa di ogni provincia italiana. Un’idea questa che cita inevitabilmente Kaurismaki e il suo “Leningrad Cowboys alla conquista dell’America” (infatti messo tra le fonti di ispirazione a fine film). Extraliscio è un film fatto benissimo, con enorme dispendio di energie, passione e professionalità, dalla fotografia ai suoni, dai costumi al montaggio, girato però durante il lockdown e dunque con difficoltà e motivazioni uniche, in situazioni kafkiane, impossibili o semplicemente scoraggianti. Eppure anche in questo sta la sua forza...
Ha detto qualcuno una volta: una canzone (ma pure un film) è qualunque cosa può camminare sulle proprie gambe… ed Extraliscio cammina benissimo, tanto che sono sicuro che farà molta molta strada, ben più di quella idealmente percorsa tra la via Emilia e la Galleria di Milano.
Extraliscio sono una band, un drink e un film dunque, sono tutte queste cose insieme... ma - insieme a tutte queste cose - Extraliscio è molto molto di più.
Una cosa sola non è (e non sarà mai): un docu-film del cazzo, tutto preso a guardarsi l’ombelico, a strizzare l’occhio a influencer e uffici stampa!
Perché Extraliscio è davvero un’opera d’arte dove chiunque (tranne forse appunto gli influencer) troverà influenze, riflessioni intime e suggestioni personali. Guardarlo mi ha riportato indietro tra ricordi, esperienze, associazioni di idee, emozioni solo mie e tanti omaggi, tutti in punta di piedi.
Innanzitutto l’omaggio commovente a una terra di pianura e nebbia come l’Emilia e a una di colline e acqua come la Romagna, lontane dal cliché estivo di “gelati e bandiere” e invece ritratte amorevolmente, grazie a una fotografia struggente e visionaria, in tutta la primigenia bellezza dell’inverno: chiatte sul fiume e barche di pescatori, viali di pioppi annegati nella nebbia e luci umide di porfido e portici.
Silenzi ovattati di bianco e nero su cui la musica si stende come un tappeto colorato, tra capannoni dismessi, hangar industriali, palchi abbandonati di bar e luci accese solo nella testa del narratore.
Il narratore, un Ermanno Cavazzoni bravissimo e magnetico, mezzo Fellini e mezzo Bukowski, sospeso tra Amarcord e Ordinaria Follia, è un Virgilio senza Dante che di stazione in stazione porterà noi - il pubblico - a riveder le stelle anzi il sole nascente, come recita il vero titolo del film, che è anche l’eterno programma di ogni balera del mondo: si ballerà finché entra la luce dell’alba.
Siamo dunque, dopo un anno horribilis, pronti a rivedere la luce al fondo del tunnel? Forse.
Ma quale tunnel? forse quello della modernità? quello del consumismo? quello del conformismo?o quello del digitale usa e getta, dell’autotune, delle vite a serie tv, della spazzatura venduta come nuovo? Il tunnel del tramonto occidentale, dove inevitabilmente alla fine torneremo a vivere come dei barbari…
A metà film c'è una scena emblematica e carica di infiniti simbolismi: Cavazzoni cammina nell’ovatta di un viale di pioppi verso l’ignoto: ad un tratto un cavaliere al galoppo sopraggiunge per poi sorpassarlo e perdersi nella nebbia. Su un altro viale (o è sempre quello?) ecco invece Mirko e Moreno, quasi infantili, alla guida di un pianoforte che si muove come un triciclo ...e pure loro incrociano il cavaliere al galoppo (quindi vanno in direzione opposta) prima di perdersi nella stessa nebbia di Cavazzoni... salendo però verso il cielo.
A me il cavaliere ha subito ricordato il futuro, evocatomi l'elogio della velocità di Umberto Boccioni (morto proprio per una caduta da cavallo) e la corsa del secolo-lupo che insegue il poeta Mandelshtam; di certo gli Extraliscio stanno procedendo a ritroso nelle nebbie della memoria verso un passato di salvezza. Solo in quel limbo di purezza fuori dal tempo sarà possibile l’incontro tra Cavazzoni e i suoi fantasmi… alla fine le nuvole non possono annientare il sole.
Betty Sgarbi carica tutto il passato, quello prossimo e quello remoto, sulla chiatta degli Extraliscio per traghettarlo su pellicola in un futuro che dovrà per forza essere l’alba di un nuovo giorno (per citare il sogno perduto della generazione di Woodstock, nelle parole lisergiche di Grace Slick che chiamava alla conta i volontari d’America, ad un altro sorgere del sole nel 1969).
Ed ecco il secondo omaggio: alla storia e alla memoria della musica popolare o tradizionale o folk o appunto liscia. Quella che mezza Europa si porta cucita addosso sul grembiule della prima elementare, e che qui però, tra il fondo del Po e il corno degli Appennini, acquista un sorriso spensierato, solare, ottimista come il volto di Casadei (o di Mauro Ferrara, star intramontabile di ogni liscio, con 350 concerti sulla gobba, scrollati di dosso ogni anno come la polvere dallo smoking di James Bond). Una storia di cui in Italia chissà perché ci si vergogna, preferendo scimmiottare le scuole e i grembiuli degli altri, magari quelli dei college inglesi, irlandesi o yankee (come gli orrendi Modena City Ramblers)... perché invece il nostro liscio parla polacco o tedesco… o magari ungherese e yiddish… o ancora il dialetto masticato di Cesena, che sono tutte lingue difficili e poco di moda.
Come difficile è ballarlo il liscio: devi conoscere i passi, avere uno che guida, essere una coppia… non basta riempire le pedane di scemi che si muovono. Nei balli codificati c’è sempre un’eleganza che segna l’irraggiungibile distanza con il semplice agitarsi in pista: c’è la voglia di imparare i passi o anche solo il piacere di vedere gli altri danzare, magari nella bassa Padana nelle balere estive dove coppie di anziani ancora ballano vecchi valzer viennesi...
Nessuno però ha descritto meglio di Paolo Conte l’esotismo e l’erotismo del ballo; e lo ha fatto, per di più, in almeno due canzoni: Boogie e Dancing... la prima ambientata tra i fumi di un jazz club di Chicago o forse all’Avana... e la seconda sotto le luci al neon di una balera di Asti o magari di Rimini. Un mondo effimero, magico e irreale, uno specchio di Alice dove tutto può accadere, uno spazio dove non si crede a nulla se non alla musica (che del resto non mente mai), dove la rumba non è altro che un’allegria del tango e si sbaglia tantissimo, ma sempre da professionisti.
E non è dunque un caso che l’occhio di Betty Wrong indugi così a lungo sui piedi dei ballerini, che le scene di ballo durino così tanto, siano così cariche di palpabile sensualità, di legittima esuberante sicurezza, di sfacciata gioia di muoversi. Nell’immaginario delle balere le donne sono tutte giunoniche e felliniane, dalle cantanti alle bariste, tutte Moire Orfei e Terese di Rimini: tette grandi, trucco pesante e acconciature improbabili.
Ma sono tutte bellissime, improvvisamente leggere sui tacchi, mosse come da un soffio di vento, lì tra i gelati e le bandiere di un perenne lungomare estivo, che si accende ogni sera dentro a un dancing immerso nella nebbia.
Anche la Rosa della Milanesiana fa una danza, che poi diventa una spirale di parole alla Apollinaire, una spirale che si ritrova ancora nella tromba delle scale di una delle prime scene del film: l’eterno ritorno che si evolve in forme sempre superiori, che siano cicli storici o giri di valzer, percorsi vitali di reincarnazioni o viaggi spirituali di meditazioni trascendenti.
Ed arriviamo così al terzo omaggio o forse al vero nocciolo del film: la memoria di una tradizione di una terra, di una musica e una storia che si passa innanzitutto di mano in mano, di generazione in generazione, di Casadei in Casadei o di Sgarbi in Wrong.
Gli Extraliscio si incontrano grazie alla figlia di Casadei, Riccarda; poi sia Moreno il Biondo che Mauro Ferrara citano proprio i loro parenti come prima e più forte influenza musicale mentre Mirco Mariani, il Link Wray del gruppo, appare direttamente in duetto con la figlia, la bravissima Gilda, addirittura nel classico klezmer Gam Gam Gam Ki Elekh, canzone d’infanzia ebraica immortalata in “Jona che visse nella balena” (eccolo il secolo-lupo al galoppo!) e che recita biblico e sibillino “anche se andassi per le valli più buie, di nulla avrei paura, perché tu sei al mio fianco. Se tu sei al mio fianco il tuo bastone mi dà sicurezza”.
E così il viaggio degli Extraliscio raccontato da Betty Wrong fino alle luci dell’alba (o forse al termine della notte?) diventa soprattutto una spirale di crescita umana, fatta di padre in figlio o meglio ancora di madre in figlia.
Alla fine infatti, poco prima dei titoli di coda, appare una scritta bellissima, quasi un chiarimento, che - sottovoce - a chi ancora guarda ricorda: “a mia madre Rina che ha tanto ballato”.
La balera di Elisabetta Sgarbi altro non è che il violino di Eso Peluzzi.
La bambina/rockstar mancata Betty Wrong ha fatto un film sulle sue radici più intime, usando la musica e gli Extraliscio per evocare la madre e tutti i ricordi lontani e magari sfocati della sua infanzia.
E su questa musica ci porta tutti, a ritmo di polka, volteggiando da Ferrara a spirale per tutta l’Emilia e la Romagna, nell’eterno ballo della vita, con infinita grazia e più poesia.
Un ballo che, ci suggerisce sempre sottovoce Betty, non finirà nel buio ma nella luce di una nuova alba, là dove già la aspetta Rina e dove per nulla più avrà paura, perché sarà ormai per sempre al suo fianco.
A volte, come canta il Maestro, è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.
Elisabetta Sgarbi con Extraliscio ha dimostrato però che non è ancora impossibile.
It’s not dark yet, but is gettin’ there, canta Dylan in uno dei suoi album più cupi; invece Betty qui ne inverte i fattori, disseminando gioia e speranza per tutto il film.
Non conoscevo Elisabetta Sgarbi e incontrarla mi ha lasciato due impressioni: grande timidezza e più grande determinazione.
Assieme a una certezza su cui di rado mi sbaglio: quella di trovarmi di fronte a una persona non comune e dotatissima, in pratica un "genio”, se non fosse una parola - come “poeta” - troppo spesso abusata o peggio usata a caso.
Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrarlo qualche genio autentico o, se preferite, qualche talento assoluto; quelli con cui tu, povero anonimo umano, hai la fortuna di condividere un pezzetto di vita da contemporaneo: Dylan, Evtushenko, Battiato, Luzzati, Magnus, De André sono certamente noti, mentre invece Sergej Shnurov dei Leningrad (una mitica band russa) in Italia non lo conosce nessuno, ma questo nulla toglie al suo dono.
(Altra nota a margine)
Shnur nei suoi brani può indifferentemente attingere alla recente lascito dell’immaginario sovietico come all'infinita tradizione di folclore russo, mixando con divertita ironia, parole e citazioni musicali, canzoni e modi di dire.
E intanto portare la “Russia che balla” oltre le colonne d'Ercole del 1991.
Perché in questi 30 anni l'esplosione di libertà e di anarchia vissuta dai russi non ha prodotto altresì grandi talenti (a parte lui) mentre invece i vecchi artisti sovietici ribelli, da Letov a Tsoj, da Vysovsky a Janka suonano ancora freschi e soprattutto autentici, quasi magici nella loro dimensione storica.
Shnur attinge quindi spesso a loro per ricostruire quella liaison perduta che un giorno sarà tradizione.
E intanto negli stessi pezzi può seminare parolacce (niente che in Occidente scandalizzerebbe manco più un convento di monache di clausura) o mettere in musica Cvetaeva (che invece è sempre potentissima), sbeffeggiare la società e i suoi tic consumistici e prendere per il culo la politica da Putin a Navalny, dalle Pussy a Sobchak.
Può farlo (e infatti lo fa) e pure con nonchalance, perché, accanto al carisma e al genio tutti suoi, si tira dietro la memoria di un’identità e la volontà di tramandarla, non certamente intatta come la mummia di Lenin, ma appunto in evoluzione.
Un'operazione culturale analoga a Extraliscio, solo con la chitarra di Kostya Limonov (e altri 16 musicisti travolgenti) al posto dell’altrettanto esplosivo Mirco Mariani.
(Fine della nota)
Dunque un po’ credo anche di riconoscerli i geni, almeno grazie a tutti quei campanelli che fin al primo incontro si mettono a tintinnare nella mia testa, nemmeno fossi diventato Mr. Tamburino.
Lo cito all’italiana, il Tambourine Man, perché in Extraliscio c’è anche (come forse si coglieva qua e là in questo umile testo) molto Battiato, che si legge tra le righe, nel non detto, nell'accennato ma anche nel progetto musicale stesso (che è proprio la strada inversa a La Voce del Padrone) così come ci sono Olmi e Scorsese, e Johnny Cash e Capossela; e Hugo Pratt (quasi evocato dai disegni del sensazionale Igort) o forse più l’alter-ego di Corto Maltese; e anche il mio amato Roberto Raviola, se solo Magnus avesse mai disegnato L’uomo di Lugo...
Del resto sono quasi tutti emiliani gli artisti del film, così come lo sono moltissimi cantanti e musicisti italiani.
In una terra che riesce a far convivere Luciano Pavarotti e Orietta Berti, Vasco Rossi e Gianni Morandi, Giovanni Lindo Ferretti e Francesco Guccini, Giuseppe Verdi e Cristina D’Avena, Raffaella Carrà e Zucchero, i Pooh e l’Equipe 84, gli Skiantos e Claudio Lolli, Nek e Nilla Pizzi... chi volete che si scandalizzi per gli Extraliscio?
Proprio per questo in un capitolo del film (“Extraliscio e gli Altri”) ci sono anche collaborazioni e tributi, apparizioni e visioni, forse non tutte necessarie ma tutte con qualcosa da dire, perfino Jovanotti che non è certo un maître a penser.
Manca stranamente una cantante di Forlì bravissima e, proprio come la Sgarbi, anomalmente emiliano-romagnola, a cui la dimensione spirituale del film sarebbe piaciuta moltissimo credo: Carla Bissi, più nota come Alice.
Chissà però che non stia aspettando anche lei gli Extraliscio assieme a Cavazzoni nelle nebbie oniriche di un futuro prossimo.
E allora in chiusura: viva il punk da balera, viva Betty Wrong ma soprattutto viva la musica che non ci fa stare fermi, in attesa dell’inevitabile ma ancora lontanissima alba.
E teniamoci stretta Elisabetta Sgarbi perché non ne troveremo mai un'altra.