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Questa è una storia di espatriati che si svolge in Francia, una sorta di fiore russo che sboccia a Parigi.
O forse potrebbe essere una fiaba… però una fiaba russa. E alle fiabe russe, il lieto fine lo ha aggiunto la Disney.
Oppure è un triangolo di amore e follia, perfetto per un film di Truffaut.
O forse è solo uno zoom sulle mitiche avanguardie russe, che erano talmente avanti da arrivare con dieci anni di anticipo sulla Rivoluzione!
Per prendere a prestito il testo bellissimo di Prospettiva Nevskij, qui parleremo di un impresario innamorato perdutamente della grazia innaturale di un ballerino russo.
No, scusate… non di un ballerino russo. Del più grande ballerino russo di sempre.
E ancora della fiaba di Anna Pavlova, la sua étoile altrettanto straordinaria.
E della nascita di quel miracolo di arte totale e provocazione che furono i Ballets Russes, in un mondo –la Belle Époque– che non aveva paura di nulla e, anzi, correva a rotta di collo verso la Grande Guerra.
“Invecchiammo di cent’anni e accadde in un’ora soltanto”
l’epitaffio di Anna Achmatova è perfetto per quel mondo che si consegnò al Secolo Breve di tragedie e totalitarismi con la stessa spensieratezza con cui avrebbe stappato l’ennesimo champagne.
Il primo protagonista è un nobile di provincia che nasce nel 1872 a Perm’, in fondo al governatorato di Novgorod nella Russia profonda, e si trasferisce appena può nella capitale San Pietroburgo, per la quale ha già un sacco di idee.
Si chiama Sergej Pavlovič Djagilev, ed è pura dinamite.
“Io sono un ciarlatano, ma pieno di brio, un grande affascinatore, un insolente, un uomo che possiede molta logica e pochi scrupoli; un uomo, sembrerebbe, afflitto da una totale assenza di talento. Tuttavia, credo di aver trovato la mia vera vocazione: il mecenatismo. Per svolgere questa attività non mi manca proprio nulla, tranne il denaro. Ma quello verrà!” (lettera alla matrigna 1895)
A cavallo dei due secoli fonda e dirige una rivista meravigliosa dal nome ambizioso –Mir Iskusstva (Il mondo dell’arte)– in cui riunisce praticamente il futuro delle arti russe, di qualsiasi arte, in un unico laboratorio di idee.
Djagilev del resto è un eclettico che dagli studi in legge è passato presto alla pittura, al teatro, alla poesia e alla musica; intanto, grazie alla sua aura innata, è stato anche nominato consigliere dei Teatri Imperiali di Pietroburgo…
Non c’è da stupirsi: Djagilev è un tipo che certo non passa inosservato! Elegantissimo, raffinato, ambiguo, audace, colto e imprevedibile è un dilettante geniale che si inventerà la figura dell’impresario moderno. Nel 1906, con un colpo di genio, porta a Parigi una mostra sull’arte russa da lui interamente curata: oltre 3000 opere di pittura e scultura degli ultimi due secoli che, dopo aver coccolato l’orgoglio russo l’anno prima, lascia letteralmente di stucco la più snob delle capitali europee.
Djagilev è omosessuale e fa poco per nasconderlo…e questo gli costa il posto ai Teatri Imperiali… ma forse a cacciarlo sarebbero già bastate le sue idee, troppo di avanguardia per la polverosa Corte di Nicola II.
In ogni caso Djagilev ormai se ne frega: sfruttando la popolarità acquisita in Francia, alla fine del 1906 è ormai lanciato come il “Genio russo di Parigi”; inizia così prima a organizzare concerti, quindi opere e infine balletti: inutile dire che ogni volta è un successo.
Lui diventa l’ambasciatore imprevedibile di una Russia lontana e quindi esotica, che affascina e stupisce ogni volta in maniera travolgente.
Nel 1909 chiude il cerchio e fonda la Compagnia dei Balletti Russi, dove riunisce tanti talenti sconosciuti che, nelle sue mani e sotto la sua direzione, diventano appunto dinamite. Pavlova, Nižinskij, Fokin sono i primi tre, a cui si aggiungeranno poi Tamara Karsavina, la stessa sorella di Nižinskij, Ida Rubinstein e molti altri…
E se i nomi dei teatri Bolshoj e Marinskij sono diventati celebri nel mondo lo si deve a Djagilev, che fece dei loro ballerini delle vere e proprie star dell’epoca.
Il primo programma dei Balletti Russi va in scena il 19 maggio del 1909 al Théâtre du Châtelet: è uno shock ma a Parigi è appena nato il balletto moderno.
Dietro alla grazia e al talento dei suoi incredibili ballerini Djagilev ha messo insieme una “factory” di coreografi, pittori, costumisti e musicisti unici: Léon Bakst, Aleksandr Benois, Jean Cocteau, Natalia Goncarova, Georges Braque, Pablo Picasso, Giorgio De Chirico, Aleksandr Golovin, Michail Fokin, Nikolaj Cherepnin, Sergej Prokof’ev, Claude Debussy, Maurice Ravel… l’elenco sarebbe infinito e nessuno di loro era famoso prima di incontrare Djagilev.
Lui è stato come l’allenatore di una grande squadra di calcio o forse come il produttore di un gruppo rock di oggi… chissà se tutti quei talenti non si sarebbero persi per strada senza di lui e soprattutto se sarebbero cresciuti così tanto, senza respirare la stessa aria tutti i giorni: l’aria del genio.
Parigi in quegli anni era davvero il centro del mondo ma i francesi ancora non se ne rendevano conto.
E pochi sanno che è sempre Djagilev a lanciare un giovane e difficile compositore russo, miope e poco disposto ai compromessi artistici dell’ambiente pietroburghese: nel 1910 Djagilev mette in scena il balletto L’Uccello di Fuoco, per le musiche dello sconosciuto Igor Stravinskij… seguiranno a breve Petruska e La sagra della primavera, per lo scandalo di tutta la buona società parigina e la futura gloria del giovane musicista.
Intanto l’efebico Nižinskij è diventato la vera attrazione della compagnia, tanto che Fokin se ne andrà per la gelosia.
Ma chi è Vaclav Nižinskij? Quando nel 1900 si iscrive alla Scuola di Ballo Imperiale di Pietroburgo, lui figlio di esuli polacchi nato a Kiev, ha appena dieci anni; ma già a diciotto debutta al Marinskij come protagonista. Il ragazzo è un talento naturale che però, facilmente, avrebbe passato in Russia tutta la vita.
Invece Djagilev lo vede e se ne innamora immediatamente. In tutti i sensi.
L’influenza del suo mecenate/amante infatti andrà ben oltre il semplice connubio artistico o la storia d’amore: una simbiosi totale in cui la fragilità del giovane resta protetta dal carisma del suo pigmalione, che però lo assoggetta in tutto e per tutto al suo volere.
Se da un lato, con Djagilev accanto, Nižinskij si sente sicuro e difeso, dall’altro ne è anche sovrastato: l’artista è dominato dalla personalità dell’altro. Djagilev però ha sempre un intuito eccezionale e sarà proprio lui a spingere il talento dell’altro a non aver paura di sperimentare.
Il pomeriggio di un fauno, come l’omonima poesia di Mallarmé, è un balletto “bidimensionale” (ispirato alle posizioni di danza rappresentate sui vasi greci) che lo stesso Nižinskij crea nel 1912; siamo nell’avanguardia pura: la musica di Debussy va da una parte mentre i ballerini si muovono a scatti e di profilo, creando una distonia assoluta che cancella ogni tecnicismo classico, mentre la scenografia di Bakst, giocando sulla bicromia, contribuisce ad annullare ogni profondità.
Il balletto però contiene un’enorme carica erotica, che si esplicita nella scena finale, suscitando scandalo perfino a Parigi, tanto che dopo poco tempo sarà cancellato dal cartellone.
Sarà il grande Nureyev, recuperando bozzetti e fotografie dell’allestimento originale, a rimettere in scena questo capolavoro proibito e dimenticato, come un devoto omaggio a Nižinskij, affermando che quello del Fauno “fu il suo ruolo preferito di sempre”.
Durante una tournée in Sud America (a cui Djagilev non partecipa a causa della sua fobia dell’acqua) Nižinskij è sottoposto alla corte serrata di una nobildonna ungherese perdutamente innamorata di lui; e così il ballerino, libero per la prima volta dalla presenza ossessiva del suo mecenate, agisce di testa sua e si sposa con Romola de Pulszky nel 1913, direttamente al porto di Buenos Aires.
Djagilev, come lo viene a sapere, pazzo di gelosia, lo licenzia in tronco: la loro unione è durata appena 5 anni.
In molti credono che Nižinskij vide nella moglie, nobile austroungarica colta e ricca, solo un modo per liberarsi della presenza totalizzante di Djagilev e intraprendere così una sua carriera indipendente, più che non una storia d’amore dal classico coup de foudre.
Io non lo credo: Nižinskij aveva un bisogno disperato di amore: da Romola ebbe due figlie (Kyra e Tamara) e lei non lo abbandonò mai; in un’intervista Kyra dice che “suo padre era la sua fiaba, lei non aveva bisogno di altre fiabe perché c’era lui”.
Però, senza Djagilev, la fragilità del ballerino inizia a palesarsi drammaticamente e lui diventa sempre più instabile.
Infine, per tutti, arriva la guerra e Nižinskij e la moglie vengono imprigionati in Ungheria come “potenziali nemici”.
Sarà ancora Djagilev, con un’abile campagna internazionale, a farlo liberare nel 1916, mandandolo subito in tour in Nord America. Purtroppo, dopo la prigionia, l’instabilità è diventata mania di persecuzione… e presto sfocia in schizofrenia.
Quando lo ricoverano in una clinica in Svizzera, Nižinskij ha appena 29 anni.
Il più grande talento naturale del balletto, in tutta la sua vita, ha danzato per appena dodici anni.
Ne passerà oltre trenta dentro e fuori da cliniche psichiatriche, sempre accudito e protetto dalla moglie, come un Syd Barrett ante litteram.
Quando muore, nel 1950, non se ne accorge nessuno.
Nižinskij riposa a Montmartre: sulla sua tomba, una scultura lo ritrae come un eterno Petruska, l’alter-ego russo di Pinocchio.
Per me invece la sua storia è quella di una Rock Star arrivata in anticipo di 50 anni: un Mick Jagger rimasto per sempre un giovane fauno.
“La gente pensa di aver bisogno di molte cose, perché più cose si hanno, più si è felici. Io so che meno si ha, più si è tranquilli dentro (…) Voglio vivere semplicemente. Voglio amare perché voglio la felicità di tutti. Sarò il più felice del mondo quando saprò che tutti condividono tutto. Sarò il più felice del mondo quando reciterò, danzerò, eccetera, senza essere pagato.” (Vaclav Nižinskij)
Passiamo alla fiaba: Anna Pavlova era figlia di padre ignoto e di una lavandaia, nata nel 1881 a Ligovo, un villaggio vicino a San Pietroburgo.
Nessuno sa come, ma fin da piccolissima era affascinata dalla danza classica, tanto che la madre (immagino con sacrifici enormi) la portò a vedere un balletto (La Bella Addormentata) al Teatro Marinskij che non aveva otto anni.
La bambina ne fu sconvolta, completamente ammaliata e rapita; quando la madre le chiese: “Ti piacerebbe ballare con loro?” lei rispose, quasi in trance: “No, mi piacerebbe ballare lassù da sola. Come una Principessa.”
A dieci anni anche lei entra alla Scuola del Balletto Imperiale: Anna è un talento puro con una volontà di acciaio. A 18 anni debutta in scena e sei anni più tardi è già la prima ballerina del teatro: come amava ripetere “lei non fu mai ballerina di fila”.
Fokin crea per lei “La morte del cigno”, un balletto nuovo, da subito un grande successo, prima in patria e poi in Europa, che diventerà la sua firma artistica.
Anche lei era magra, affusolata, quasi diafana e –proprio come Nižinskij– non aveva nessuna delle caratteristiche della ballerina classica dell’epoca. Semplicemente, loro due portavano in scena nuove opere, con nuovi concetti e nuove figure, creando così un nuovo balletto.
Ma fu Djagilev a metterli insieme, anche se per poco tempo.
Anna Pavlova danzò in tutti i teatri del mondo: il suo sogno di bambina si era davvero avverato.
Prima della guerra si trasferì a Londra, dove sposò il suo protettore Dandré (fuggito dalla Russia per evitare un processo di frode) e continuò la sua leggendaria carriera per altri vent’anni. Era famosa per la continua beneficenza che dedicò -lei orfana- ai tanti orfani della grande guerra.
A 50 anni era ancora straordinaria: sempre la stella più applaudita, lassù da sola sul palcoscenico; un miracolo di grazia ed eleganza, una vera principessa da fiaba. Ma, appunto, una fiaba russa.
Il treno che la portava in Olanda nel gennaio del 1931 ebbe un incidente; lei non si fece nulla ma restò molte ore al freddo nella neve lungo i binari con un vestito troppo leggero. Quando finalmente giunse all’Aja, era già stata colpita da polmonite fulminante.
Anna si spense il 23 gennaio: dicono che tra le mani tenesse non un rosario ma il costume di scena dEl cigno.
Il giorno dopo il balletto va in scena lo stesso, i violini suonano la morte del cigno e un occhio di bue illumina sul palco la sua assenza.
Fu cremata, le sue ceneri sono a Londra e, malgrado vari tentativi, non sono mai state riportate in Russia.
"Lottare senza tregua e in tutti i momenti per raggiungere il proprio scopo: qui sta il segreto del successo. E cos'è in realtà il successo? Non lo trovo negli applausi del pubblico, ma nella soddisfazione di aver realizzato un ideale” (Anna Pavlova)
Sergej Djagilev continua anche dopo la guerra a guidare avanguardie, definite dai suoi detrattori come decadenti, mentre gli artisti un tempo suoi compagni di viaggio tornano in patria come pseudo-avanguardie del nuovo verbo socialista (quando appunto lo avevano preceduto di dieci anni almeno) o si rassegnano ad un esilio -spesso dorato- in America o in Francia.
Il suo carattere impetuoso e decisionista gli ha sempre impedito di mantenere relazioni stabili nel tempo, però il suo fiuto resta infallibile.
Ma sono i tempi ad essere cambiati: non c’è più posto per lo stupore e la meraviglia, ovunque le parole d’ordine sono altre, il nazionalismo impazza e l’Europa decisa marcia a passo dell’oca verso il secondo tempo della guerra.
Il talento e le intuizioni di Djagilev non sono più funzionali alla società, né in Francia (dove per le élites lui ormai è un déja-vu) e nemmeno in Italia dove, ancora nel 1927, una Scala distratta non apprezza –né forse capisce– i suoi Balletti Russi, che finiscono derubricati tra le stranezze di cui Parigi era piena.
Dicono che Djagilev, letteralmente innamorato dell’Italia, ci sia rimasto molto male.
Del resto lui è ormai solo l’ombra di quel geniale nobile di provincia che stregò prima Pietroburgo e poi Parigi. Dell’uomo che prese per mano l’arte russa e la fece uscire dal guscio, liberandola dal complesso di inferiorità che l’affliggeva fino ad allora.
Quello immortalato dal suo amico Bakst in un celebre ritratto: l’elegante dandy di tre quarti che, più che guardare, giudica lo spettatore mentre alle sue spalle una vecchia babuska siede con le mani giunte, fissandolo senza comprenderlo, eterna icona della madre Russia.
Ora, 19 agosto 1929, di quel ritratto resta solo il ciuffo chiaro sulla fronte che da giovane gli dava il soprannome di “Cincillà”.
Ma i capelli da anni sono tinti.
Lui, che non amava l’acqua, muore in totale povertà nella camera n. 41 dell’Hotel des Bains di Venezia, proprio dove –vedi il destino– Thomas Mann aveva ambientato “La morte a Venezia”. Accanto a lui, ci sono solo lo scenografo Boris Kochno e il ballerino Sergej Lifar: i suoi due ultimi amanti.
Ma Djagilev, anche da morto, regala un’ultima scena memorabile: quando all’alba il corteo funebre arriva in barca davanti chiesa ortodossa di San Giorgio dei Greci, ad attenderlo c’è Coco Chanel da sola; ed è vestita di bianco, come una sposa. Sarà lei a pagare le spese e il monumento funebre sull’Isola di San Michele. Quella tomba che ogni agosto si riempie di anonime scarpette da danza consumate, lasciate a mo’ di ex-voto. O forse di gratitudine.
“Vorrei sapere dov’è quel rigoglio, quell’apogeo della nostra arte dal quale andremmo spediti verso l’abisso della disgregazione. […] Dov’è quella rinascita di cui noi tutti rappresentiamo la decadenza?” (Sergej Djagilev)
Post Scriptum
Igor Stravinskij, il Picasso dei compositori, ebbe una carriera straordinaria. Al contrario di Prokof’ev scelse di vivere in esilio, lontano dalla Russia, prima in Francia e poi negli States, dove però non si ambientò mai. Nelle sue ultime volontà, stupì tutti chiedendo di riposare nel Cimitero degli Ortodossi a Venezia.
Accanto al suo amico Sergej Pavlovič Djagilev.
Post Post Scriptum
Evgenij Plushenko, immensa stella del pattinaggio russo, ha dedicato un Tributo a Nižinskij, su musiche dell’ungherese Edvin Marton. L’esibizione, avvenuta nel 2003, gli è valsa la vittoria ai Campionati Nazionali Russi e ha avuto il punteggio più alto di sempre (nove 6.0).
A parte tutto ciò, l’esibizione di Plushenko è di una bellezza e di una perfezione tali che viene da credere alla reincarnazione.
https://www.youtube.com/watch?v=SEJXkfMYTX4
“Nell'attimo in cui apparve rimasi elettrizzato. Ho visto pochi geni sulla terra, ma Nižinskij è stato uno di loro. Era ipnotico, divino, la sua tristezza suggeriva atmosfere di altri mondi; ogni movimento era poesia, ogni balzo un volo nella fantasia più sfrenata. [...] Il mistico mondo che ha creato, l'invisibile tragedia annidata nell'ombra della bellezza pastorale mentre egli si muoveva attraverso il suo mistero, divinità di appassionata tristezza: riusciva a esprimere tutte queste cose con pochi gesti di estrema semplicità e senza sforzo apparente.” (Charlie Chaplin)