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Romano Levi e tutti i "Poi” delle Langhe
Questo testo è stato scritto come prefazione al catalogo della mostra di Palazzo Bricherasio dedicata a Romano Levi: lo ripubblichiamo qui, con poche modifiche non sostanziali, in suo ricordo. Volutamente tutti i tempi sono al presente.
Uomini come leoni e donne come uomini li descrissero con poca gentilezza gli storici romani oltre 2000 anni fa: li chiamarono Liguri e li sterminarono a Caristo nel 173 a. C; i pochi che si salvarono, si ritirarono nella barbarica silva di allora, grosso modo le Langhe di oggi.
Per questo ci piace pensare i Langhetti di oggi come gli ultimi eredi di quei Liguri: ribelli, indipendenti, attaccati alla loro terra, orgogliosi e per nulla accomodanti, ma anche leali e riconoscenti. I Langhetti sono pertanto almeno per noi liguri senza mare, senza quindi nemmeno una possibilità di fuga… e la Langa di conseguenza un mondo chiuso, geloso delle tradizioni, matriarcale e conservatore.
E in questo mondo a sé, uno dei nostri primi incontri importanti (anche se in momenti diversi) è stato proprio con Romano Levi, il distillatore.
Per noi è dunque naturale pensare Romano come parte delle Langhe, anche se per la verità il mondo di Levi è un mondo a parte, perché entrare nel suo cortile è come cambiare dimensione, fuori dallo spazio e fuori dal tempo… Ma è un effetto del tutto simile a quello che i forestieri provano quando entrano nelle Langhe!
Cos’hanno dunque queste colline di così speciale, di così unico? …in fondo di colline, di vigne e di boschi l’Italia è piena. Ma soprattutto: cosa c’entra Levi con le Langhe?
Noi cercheremo di dare una risposta a questa difficile domanda, ma più che altro cercheremo di fornirvi una chiave di lettura delle Langhe, una strada per interpretare e forse descrivere sensazioni molto più vicine ai sentimenti e all’emozione che non ad uno status codificato. Le Langhe come Poesia quindi.
La poesia della terra innanzitutto: quella resa magistralmente da Gigi Marsico in Al principio il vino è una collina e che è stata cantata prima di lui dagli immensi Gino Veronelli e Mario Soldati. Una terra aspra, povera, difficile, frammentata e legata per secoli a servitù quasi medioevali: la mezzadria raccontata da Fenoglio ne La Malora, il mercato delle braccia la miseria e la fame atavica che tutti gli abitanti delle Langhe hanno conosciuto, tutto ciò conserva però un tratto romantico che pure non ne sminuisce mai la dimensione di sofferenza. La Langa è stata per secoli una lotta continua, una fatica legata a doppio filo alla precarietà della vita come della condizione economica, al capriccio del caso. Bastava una grandinata, una siccità e una famiglia, una borgata, a volte un paese intero erano rovinati.
Barbaresco, che oggi è uno dei salotti di queste colline, solo 100 anni fa era il più povero, e quindi uno dei paesi con più emigrazione. Emigrazione che questa regione ha conosciuto ben prima di molte altre parti d’Italia: Francia, Argentina, Uruguay, California, Australia sono solo le destinazioni più note. E di tutto il Piemonte, non erano gli abitanti delle pianure più fertili e facili, né quelli delle risaie, né quelli delle dolci colline monferrine a lasciare per primi, ma invece i montanari (che vivevano di castagne) e appunto i langhetti (che mangiavano pane strisciato sull’acciuga).
Eppure c’è sempre stato tra i langhetti un attaccamento inspiegabile per una terra così difficile, per una vita così dura, che sempre li ha spinti a ritornare,proprio come il marinaio che rientra al porto.
Un orgoglio forse.
Quello che ad esempio che si ritrova nel Nebbiolo, il vitigno principe del Piemonte che -guarda caso- è anche uno dei più difficili: irruento, scarso (rispetto ad esempio al Barbera), di lunga vinificazione e poi lunghissimo invecchiamento. Un vino che è un lusso, un vino da ricchi non certo per contadini e mezzadri… eppure qui, il Barolo, il Barbaresco (e il Nebbiolo in generale), sono sempre stati esibiti con un orgoglio legittimo che ha quasi dell’irrazionale.
Guardate le case delle Langhe (quelle vecchie, non i paramano moderni e osceni): la povertà si respira ancora nella semplicità architettonica (nessun paragone con le cascine astigiane o i casali della pianura)!
Ed ecco che dentro a quelle quattro mura storte di pietre e mattoni, il langhetto scavava un cunicolo nel tufo (il crotin) dove poter mettere sì la dispensa, ma pure qualche bottiglia preziosa di quel vino che alla fine non si beveva mai (perché l’alimento di tutti i giorni era un surrogato, il vinot) ma che occorreva conservare e –forse- tramandare.
Un orgoglio e un rispetto fatti di fatica e distacco, di storia e nostalgia.
Un tratto residuo forse di quei leoni descritti dai Romani? O più semplicemente un’altra stranezza tipica di questa gente che lavorava come una bestia per un anno intero per vendere magari le uve al mercato di Alba… e poi (come ci racconta Fenoglio) poteva mangiarsi tutto in una folle notte alle carte in qualche bettola delle Langhe o farsi prendere in mezzo alle scommesse truccate del pallone elastico?
Inspiegabili, misteriosi, assurdi langhetti!
Ma, per tornare a Barbaresco, basta guardare la foto del 1902 dell’omonimo nonno di Angelo Gaja (esibita giustamente anche questa con orgoglio) con mulo, cappello e bisacce per percepire in un sol colpo il salto vertiginoso che le Langhe hanno fatto in cent’anni.
Le case oggi contese da artisti, architetti e manager come buen retiro sono le stesse in cui Agostino e Tobia crepavano di fatica. Le colline oggi pettinate di vigne, cimate, fresate e vezzeggiate coi migliori trattori, sono le stesse passate coi buoi e concimate a mano per secoli, in cui tra un filare e l’altro si seminava il grano o le patate (e infatti moltissime sono tutt’ora a girapoggio, quando per i macchinari oggi sarebbe meglio la vigna a ritocchino, cioè in verticale).
Ha ragione Cesare Pavese: le Langhe non si perdono. Ma senz’altro si rinnovano pur mantenendo un’identità atavica. Oggi, le stesse colline della Malora sono tra i luoghi più desiderati del mondo, producono eccellenze esportate in ogni dove, vedono il continuo pellegrinaggio di appassionati per nove mesi l’anno, e per contro assistono ad un altro flusso di viaggiatori in uscita: i tantissimi produttori di vino che ormai girano tutto il pianeta e cercano nuovi mercati senza dimenticare quelli storici; un’azione straordinaria che trova la sua forza (e a volte il proprio limite) proprio nella molla forte dell’individualismo langhetto: oggi sono loro i primi ambasciatori delle Langhe, portatori non più di braccia, ma di un vino che è anche un’idea, una suggestione, una poesia.
Il fascino, il desiderio e il richiamo delle Langhe nascono sempre più spesso in un calice di vino bevuto ad Osaka piuttosto che a Key West o Amburgoe nel mondo che si intuisce dietro a quel bicchiere, a quella bottiglia, a quel cru.
Poesia quindi nell’aria, nella terra, nel vino: che oggi affascina il turista come già quarant’anni fa attirava i pittori (come il Gruppo dei Sei o Eso Peluzzi) venuti a Bossolasco o a Monchiero a trovare un’ispirazione. Ma anche poesia nelle pievi solitarie dimenticate sui bricchi più lontani, che stupiscono di affreschi gotici e di religiosità ancestrale …e ancora poesia nella magia visionaria dell’avanguardia informale di Pinot Gallizio e del suo movimento internazionale per una Bauhaus immaginaria. Proprio Pinot, farmacista, pittore, amico degli zingari e poliedrico animatore e istrione di un’Alba sonnolenta anni ‘50, rappresenta il tratto imprevedibile e anarchico del Langhetto. Lo stesso spirito libero di ribellione e anticonformismo che spinse così tanti giovani a salire sulle colline l’8 settembre 1943 e a liberare un anno dopo –anche se per soli 23 giorni– la città di Alba.
Sete di libertà dunque, ma anche tanto senso dello Stato: come nelle guerre di indipendenza, sul Piave o tra gli Alpini del Don; un sacrificio che ancora segna questi minuscoli, sperduti comuni di lapidi bianche fitte di nomi. Un senso dello Stato, un’austerità anomala che del resto si ritrova anche nei tanti politici italiani piemontesi, da Cavour a Giolitti, da Gobetti a Einaudi.
Va aggiunto che tutto nelle Langhe, dalla festa sull’aia, al mercato in piazza, dalle scansioni del calendario contadino, alle partite a carte, tutto ruota intorno all’Osteria, al convivio, alla tavola. E quindi attorno alla gastronomia: una delle cucine più povere d’Italia, fatta principalmente di verdure, carni bianche e tanta inventiva.
I grandiosi piatti della festa erano le eccezioni non la regola: la carne si mangiava la domenica forse, le uova si vendevano così come le bestie (i vitelli) e i formaggi. Solo in pochi grandi eventi (come il matrimonio, la leva, la vendemmia, il masacrin) si poteva giustificare l’abbuffata. E cosa si poteva bere in quelle occasioni? Vini robusti, forti di alcool e carattere, complessi, lunghi in bocca quanto di attesa nelle botti, che non cercano la comoda benevolenza del rosso sanguigno e del gusto facile: vini come il Barolo appunto o il Barbaresco, tra i più ricercati rossi del mondo. Ma anche la Barbera e il Dolcetto, che qui più che altrove acquistano carattere e grinta. E per finire, il colpo di teatro per eccellenza: il Moscato, il vino con cui da sempre i bambini iniziano a bere, una summa autunnale dei profumi e delle suggestioni delle colline in primavera. Un vino che sempre definiamo da donne intendendo che della donna ha il fascino, la seduzione, la freschezza, la levità.
Ma la poesia della tavola e della collina non sarebbe completa senza un’altra poesia: il dialetto. In questo testo, inevitabilmente, abbiamo fatto ricorso a parole e espressioni tipiche del piemontese: un impasto di italiano, francese, ligure e celtico, impossibile da intuire, ma necessario per leggere compiutamente questa società contadina. I dialetti (tutti, italiani e non) sono la vera lingua dei popoli, la loro anima: i dialetti danno vitalità, invenzione e rinnovamento allo stesso italiano, dai quali sempre attinge. Il piemontese è difficile, duro, poco musicale ma anche sincero e sintetico: quindi intraducibile. Ma anche imprescindibile.
È infatti lo ritroviamo sulle etichette dei vini, nei nomi delle località, delle vigne, dei soprannomi delle persone.
Romano Levi non fa un uso puntuale del dialetto, ma tutte le sue famose etichette affondano nel riflesso del piemontese: usa l’italiano come farebbe un langhetto alle elementari. Le sue più fulminanti espressioni (come in sogno ho sognato o grazie che ci siamo incontrati) hanno la stessa spontaneità dei temi dei bambini a scuola.
Invece le scrive e le disegna un signore di oltre settant’anni, che però ha mantenuto lo stesso spirito dell’infanzia, che vede il mondo dal personalissimo buco della serratura del proprio cortile, che ha trovato una via per comunicare la sua visione del mondo senza dover mai uscire di casa. Del resto lui utilizza sempre un tratto naif (che negli anni ha avuto comunque una propria evoluzione) col quale forse ribadisce inconsapevolmente questa intenzione.
Le etichette di Romano, che tanto mandano in estasi fans e collezionisti, non sono altro che lettere attaccate ad una bottiglia: messaggi da naufrago affidati al mare del mercato da oltre 50 anni, senza alcuna particolare voglia o attesa di venire salvati!
Sono solo quello che lui sente in quel momento.
E soprattutto non bisogna confondere il contenitore col contenuto, cosa questa a cui Romano tiene particolarmente. Quando gli chiedono: “Ma Lei è più poeta o pittore?”, lui invariabilmente risponde: “Io veramente faccio grappa!”.
Infatti non ha mai disegnato un’etichetta per nessuno, se non aveva grappa da imbottigliare. La fila interminabile dei suoi ammiratori, spesso attirati solo dal collezionare un’etichetta nuova, viene accontentata solo se c’è prodotto, non se lui ha il tempo di farti l’etichetta.
La sua volontà, umanissima, inespressa e forse inconsapevole, di lasciare traccia di sé, passa senz’altro per questa galleria straordinaria di pensieri sempre liberi e sempre freschi, che sono le sue etichette, ma lui –a parole– la esprime in altro modo.
Come quando racconta (e quante volte lo racconta!) il ciclo della grappa: io amo la natura e tutto quello che ne fa parte, come la vite che produce l’uva, che è buona da mangiare, e poi dall’uva si fa il vino, che è già molto, e dopo con le vinacce fai la grappa, che dura per sempre; e dopo torchi quello che avanza e ne fai il combustibile per l’alambicco e infine hai cenere che riporti nella vigna come concime per l’anno dopo.
Detta così davvero la Grappa ha qualcosa di spirituale.
Ed è –crediamo– in questo infinito ciclo che Romano ritrova la sua consonanza con le regole dell’armonia universale: ed è per questo che Veronelli lo ha chiamato Grappaiol Angelico.
Parliamo allora di questa grappa: Levi è l’ultimo distillatore a fuoco diretto d’Italia, cioè dove la distillazione delle vinacce avviene a fiamma viva sotto l’alambicco (esistono oggi tecniche più precise, come a bagnomaria o a vapore, ma tutte meno veraci). Iniziò suo padre Serafino nel 1925 e poi sua madre fino al 1945, quindi Romano e sua sorella Lidia, che allora erano appena adolescenti. Da allora sono sempre insieme: Lidia, intelligentissima, pronta e curiosa, è quasi un alter-ego di Romano, con la stessa filosofia di vita: impossibile dire quali etichette siano nate da lui o da lei. Romano ha infatti un rapporto strettissimo con sua sorella e più in generale è da sempre affascinato dal mistero dell’altra metà del cielo, la donna.
Quella donna che in Langa ha pure un suo monumento; la donna come l’anello forte della matriarcale società contadina; la donna anche come primo e continuo punto di riferimento per Romano Levi.
Cosa sono altrimenti tutte queste Donne Selvatiche (mai selvagge) che scavalicano le colline? Tutte quelle Alunne che puliscono la casa, e le Maestre che danno le pagelle …e Maria ti devo parlare …e quelle altre mute ma sensuali, coi capelli di fiori e gli occhi da gatta… Cosa sono, se non un unico, continuo omaggio a tutte le Donne (di Langa e non), fatto di profumi, sapori, colori che si rinnovano di anno in anno? E non è forse la donna –da sempre– la prima Musa del poeta?
Ma torniamo alla Grappa: val la pena citare qui un vecchio detto veneto “Per fare una grande grappa ci vogliono solo due cose: vinaccia di alta qualità e 100 anni di esperienza!”. Perché, per distillare a fuoco diretto ci vuole soprattutto pazienza, sensibilità, manualità. Un miracolo di artigianato che rende possibile ottenere un prodotto del livello della grappa di Levi, altrimenti impossibile. In gergo si parla di tagliare la testa e la coda cioè di separare il prodotto eccelso dalle impurità e dai residui marginali della distillazione. A fuoco diretto non esiste un metodo codificato per farlo che non sia appunto l’esperienza.
Per questo, parlando con Romano, facciamo spesso riferimento ai suoi 62 fiammiferi: perché con quell’unico fiammifero all’anno Romano accende il fuoco che lo accompagnerà per mesi, senza mai spegnersi. Ogni fiammifero, un’annata;
ogni annata, una nuova esperienza.
Ed è a contatto con quel fuoco impetuoso e impietoso che Romano e i suoi assistenti (quelli che lui definisce da sempre gli Ignari) passano gran parte della giornata e soprattutto delle notti. Le moltitudini di gufi e civette che la gente gli porta (un’involontaria collezione collettiva) derivano proprio da un primo coppo di Alessandro Lupano (suo grande amico e straordinario artista) con sopra appunto un gufo, perché era così che Romano si vedeva: solo, di notte, a lavorare con l’unica compagnia delle civette, che –per lui e per noi– ovviamente non portano sfortuna!
Molte delle originalità di Romano –quest’uomo buono, mite, semplice, sempre gentile ed educato con tutti– derivano infatti da una logica e una praticità tutte sue: per esempio il vezzo di avvolgere le bottiglie in un foglio de Il Sole 24 ore trova una sua spiegazione nell’apprezzamento di Levi per le previsioni del tempo di quel giornale (!), che lui trova le migliori di tutte. Poi sono anche una comoda confezione riciclata, su carta colorata che non macchia di inchiostro le etichette.
Perché oltre il cancello rosso, l’ingresso al mondo di Levi, regna forse il caos ma è un caos ordinato! Tutto, finanche le famose ragnatele, ha un suo perché e una sua ragione d’essere.
La poesia che ritrovate nelle etichette come nelle bottiglie, che si respira vicino al fuoco o sotto il pergolato antico, tra i gatti, i fiori e le formiche, non è lontana da quella più vaga e indefinibile che trovate nelle mille colline di Langa, anche se pure diversa. Non sappiamo se Romano Levi sia così perché abita a Neive o se le Langhe sarebbero diverse senza di lui. Certo che è curioso che la sua famiglia non sia langhetta ma arrivi da Fraciscio (una frazione di Campo Dolcino in Val Chiavenna) dove c’è da sempre una grande tradizione di distillatori.
Ci piace pensare che nessuno abbia cercato nessuno, ma che semplicemente Levi e le Langhe si siano trovati, incontrati e piaciuti.
Il mondo di Romano Levi non sono le Langhe ma certo c’è una parte di esse dentro. Così come le Langhe non sono solo Levi anche se lui ne è uno dei figli più illustri.
Forse il legame più stretto è appunto il sottile e discontinuo filo della poesia o come ama dire lui a proposito della sua eredità: io non ho niente, colleziono solo strette di mano.
Di recente Romano ce ne ha dato un’indiretta conferma, con l’ermetica etichetta: E poi… tutti gli altri poi della Langa.
Ancora una volta quindi, anche a nome di queste colline: grazie che ci siamo incontrati Romano.