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Kaos

Pietro Giovannini3 febbraio 2016

La parola Girgenti ha per me una potenza evocativa di brezza marina e lecci e pitosforo e mille altri arbusti spontanei… profuma di origano e sale, sa di fichi d’india, pastori e rovine: si posiziona idealmente tra i due blu del cielo e del mare, esattamente là dove si trova la Sicilia.

Niente a che fare con la parola Agrigento, la versione latino-italiana voluta da Mussolini, che invece mi sa di campagna bruciata, speculazione e degrado.

La parola Girgenti è in qualche modo custode di una Sicilia primigenia che non c’è più oppure che continuerà sempre ad esistere, erede dei nomi più antichi di Akragas -come la vollero i greci- di Kerkent -come la storpiarono gli arabi- e dei Normanni infine che la mutarono in Girgenti.

E così per me si dovrebbe ancora chiamare.

Girgenti è poi legata, in un’associazione di idee quasi automatica, a Luigi Pirandello che ivi nacque in un caldo giorno di fine giugno del 1867, italiano da appena 6 anni.

Credo che nessun autore rappresenti meglio di lui il genio e la complessità dell’universo mentale siciliano.

In Pirandello rivivono le ansie e le ricerche dei grandi filosofi greci che da qui contemplarono il mondo con occhi nuovi; il tormento e la insicurezza cosmica che quest’isola porta indissolubile da sé; la precarietà e la fragilità di una terra vulcanica percorsa da terremoti e invasori dall’alba dei tempi; l’ironia e il sorriso beffardo che sempre il siciliano sa levare davanti al caso della vita; la rigidità, il formalismo e la fierezza dell’uomo che sa che non sarà solo di passaggio o che almeno questo passaggio non sarà del tutto inutile.

La sua biografia è tutta un programma, fin dal nome della borgata dove vagì per la prima volta: la contrada Cavasu, di cui Pirandello amava ricordare l’etimo greco corrotto nel dialetto locale: Kaos.

Niente come il destino può a volte essere così manifesto.

Il figlio del Kaos infatti passerà la vita a scriverne, a dimostrare come la verità sia un argomento buono per gli ubriachi (cit. Dylan) perché al mondo non esiste una visione oggettiva ma solo mille percezioni diverse, tutte vere o almeno verosimili.

Il padre Stefano lo avrebbe voluto tecnico e poi avvocato… infine, arresosi, lo lascia iscrivere a Lettere malgrado il ragazzo a undici anni avesse 5 in italiano. Col senso pratico dell’epoca gli combina però un matrimonio con un’altra ricca famiglia affinché possa vivere con la dote della moglie. La sua è la più classica delle famiglie risorgimentali: il padre è stato un garibaldino, la madre è la sorella di un suo compagno d’armi, il nonno materno è morto esule a Malta ricercato dai Borbone; la famiglia Pirandello (che tra l’altro ha origini genovesi, da Prà) ha una tradizione di azione etica, di fedeltà al nuovo Stato che ha sognato, come di sacralità della parola data e di senso del dovere come guida morale.

La Sicilia in cui Pirandello cresce è un mondo ordinato, tranquillo, in cui tutto “è come pare” e Luigi ci crede fino a quando, ancora bambino, non scopre che il prete ha truccato una lotteria per fargli vincere il premio. La rottura con la religione cattolica sarà da allora insanabile.

Poi, crescendo, si sfilerà dall’attività del padre, tra miniere e commerci che non fanno proprio per lui, per studiare appunto filologia romanza a Roma; ma anche qui ben presto lo aspetta una delusione profonda: il Rettore dell’Università sbaglia grossolanamente una traduzione latina e come se non bastasse, indispettito perché Pirandello glielo ha fatto notare, lo espelle dalla scuola. Pirandello allora fa una cosa bellissima: se ne va a Bonn, si impara il tedesco e in due anni si laurea con una tesi geniale sul dialetto di Girgenti. 

Per nostra fortuna e della Letteratura tutta, dopo un paio di anni ancora, decide di tornare in Italia a Roma.

Nel frattempo la ruota del destino ha iniziato a macinare imprevisti: il matrimonio combinato del 1894 si è rivelato invece davvero un legame d’amore ma presto Margherita sarà colpita da demenza e Luigi le resterà accanto vent’anni prima di rassegnarsi al manicomio; i soldi che dovevano garantire alla famiglia un’esistenza serena vengono inghiottiti dal crollo della miniera dov’erano investiti nel 1903 e per Pirandello con tre figli e una moglie inferma si apre un futuro difficile; Luigi insegna alle Magistrali e dà ripetizioni serali di tedesco.

Luigi Capuana, che lo stima, lo ha introdotto nei circoli letterari romani ma, malgrado la febbrile attività di scrittura, a nessuno sembra interessare quello che scrive questo siciliano colto e difficile.

La ruota gira ancora perché nel 1904 arriva il primo successo di pubblico con il “Fu Mattia Pascal”, un romanzo pubblicato a puntate che, dato il successo, viene subito stampato e tradotto anche all’estero; non viene però apprezzato dalla critica che quindi continua a ignorare Pirandello.

Il più grande autore di teatro italiano dopo Goldoni vivrà altri diciott’anni con la moglie sempre più instabile, un figlio prigioniero degli austriaci nella Grande Guerra e mille incombenze quotidiane fino al ’21-22, quando finalmente raggiunge il successo con “Sei personaggi in cerca d’autore” e può così dedicarsi totalmente al teatro. Il mondo si accorge di lui quando ha ormai 55 anni. Da allora però il successo, la stima e la fama saranno inarrestabili e unanimi, fino all’onore del premio Nobel nel 1934.

Nel 1924 ha preso per convinzione anche la tessera del Partito Fascista (che a Pirandello appare forse il garante di un ordine e di un orgoglio risorgimentale distrutto dalla Prima Guerra Mondiale e contrapposto alla sfiducia nei regimi socialdemocratici), ma Mussolini non lo amerà mai e anzi le sue opere saranno sempre attentamente vagliate dall’OVRA.

Del resto Pirandello è autore troppo originale e indipendente, e i suoi testi più che certezze instillano dubbi, non è un autore funzionale a una dittatura tantomeno alla retorica mussoliniana; nel ’27 esclama inviperito “Io sono apolitico: mi sento soltanto un uomo sulla terra. E, come tale, sono molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto!”, strappando la tessera in faccia a non so più quale gerarca.

In effetti, dopo il ricovero definitivo della moglie, Pirandello si allontanerà sempre più da ogni cosa terrena, scegliendo di vivere in albergo (la sua casa comunque non aveva mai avuto nulla di personale: pulita, ordinata e spoglia come fosse mai stata abitata).

Quando si spegne nel 1936 lascia meticolose disposizioni funerarie che stridono con tutta la retorica di regime (in questo mi ricorda le ultime volontà di Achmatova): bara di infimo ordine, corpo nudo avvolto in lenzuolo, nessun corteo, nessun discorso, nessun fiore:

“Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi.”

Mussolini (che in segreto agognava al Nobel per la Pace!) è sempre stato geloso di lui e prende queste volontà come un ultimo sgarbo alla pomposa retorica del Regime, proprio nell’anno dell’Impero e del Consenso.

 

Pirandello, seppur per pochi anni, era nato italiano e quando muore è sicuramente la personalità più rappresentativa di un paese che sempre nel mondo è stato sinonimo di Arte, Cultura e Innovazione.

Nella suo teatro ci sono già tutte le tematiche moderne dall’incomunicabilità all’alienazione, dall’assurdo al grottesco, dalla crisi esistenziale al relativismo umano.

Mi piace riprendere le sue parole (riportate da Corrado Alvaro) a proposito della civiltà americanizzante della Germania del 1928 diceva: “La vita oggi ha troppo poco valore per i tedeschi. Vita e morte sono i due cardini del pensiero degli uomini, e qui hanno un valore transitorio. Da questa relatività dei valori, la morale dell’America ha preso la sua forza di espansione. Per noi italiani, vita e morte significano ancora qualche cosa. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere a un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi”.

Nel 1936 tutto sembrava andare bene e gli italiani applaudivano entusiasti il loro Duce, cantavano Faccetta Nera e accoglievano in un tripudio di bandiere il nuovo cancelliere tedesco Hitler, inconsapevoli della tragedia che stava per bussare alle porte del mondo.

In quell’anno 1936 lui, lo scettico siciliano di Girgenti, cresciuto tra le decine di teatri immoti da 2500 anni, di quella Grecia che il Teatro creò, lui il figlio del Kaos che mai requie ha avuto in vita, lui il genio mondiale cercato da tutti, sceglieva di andarsene nudo nella cassa, da solo all’estremo rogo.
Non prima però di consegnare al Novecento il Teatro Moderno. E il mondo davvero non è finito con lui.

Perché davvero c’è un prima e un dopo Pirandello.

E quelli dopo sono tutti figli suoi: uno, nessuno o centomila.

Sia lode a Girgenti. Sia lode al Kaos.

 

PS:
Entrato nella Casa dei Concerti di Stoccolma, dove gli sarebbe stato consegnato il Premio Nobel, Pirandello non riusciva, tra le tante sale, a trovare quella dei ricevimenti. A un tratto vide uscire da un corridoio un signore in uniforme.
“Saprebbe indicarmi la sala dei ricevimenti?” domandò allo sconosciuto. 
“Certamente –fece l'altro gentile– mi segua.”
Si avviarono insieme e quando finalmente arrivarono alla sala, lo scrittore domandò alla cortese guida il suo nome.
“Il mio nome? –rispose il signore– Re Gustavo.” 

“Per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell'arte drammatica e teatrale la Reale Accademia di Svezia le conferisce il Premio Nobel per la Letteratura” Stoccolma 1934