Tu sei qui
Santo Stefano Belbo e Cesare Pavese: le Langhe non si perdono
È un bel paese, sì, ma solo a un patto… che capitatoci a vent’anni, e venutone via, poniamo, a venticinque, tu abbia la ventura di non tornarci mai più…
Un profilo di collina. Una parola di quel vernacolo. Un nome letto su d’un foglio.
Magari un sogno. Magari nulla. E vuoi andare.
Ma guai a te, se fai davvero quel viaggio.
Quello sarà bene per te l’ultimo viaggio.
(da I Sansössì di Augusto Monti)
Forse Cesare Pavese, che di Monti era stato allievo prima -e amico poi- non ricordò queste frasi del maestro quando scrisse La luna e i falò, regalando al suo paese natale un posto nella grande letteratura del secolo e ai lettori di tutto il mondo uno dei più struggenti romanzi di tutti i tempi.
Uscì nell’aprile del 1950, appena quattro mesi prima di quell’agosto in cui lo scrittore si tolse la vita, nell’Albergo Roma di piazza Carlo Felice a Torino, forse per un amore non corrisposto verso Constance Dowling (l’attrice americana a cui è dedicato il romanzo), più probabilmente per un esaurimento nervoso.
Fu dunque quello davvero il suo ultimo viaggio.
Un viaggio al tempo reale e fantastico, un ritorno più letterario che personale, nei luoghi che aveva frequentato da bambino, descrivendo storie e destini che aveva vagheggiato da giovane; un viaggio segnato dai ricordi delle colline e delle persone ma trasfigurato in una dimensione mitica. Ed è tra questi luoghi mentali che anViagi vi vuole riportare.
“Santo Stefano, all’imbocco della vallata del Belbo, è un poco la metropoli delle Langhe”.
A Santo Stefano Belbo, grosso centro di fondovalle al confine tra le colline aspre delle Langhe e quelle più dolci del Monferrato, Cesare Pavese era nato nel 1908; dopo la prematura scomparsa del padre, all’età di otto anni si trasferirà a Torino. E Santo Stefano rimarrà per sempre l’immagine dell’infanzia.
“Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale”.
Sicuramente oggi non si può descrivere Santo Stefano come quattro tetti: è infatti un paese in forte espansione (che la speculazione edilizia ha in parte rovinato), che conserva poco della natura incontaminata e selvaggia che eccitava la fantasia di Pavese bambino. Pur tuttavia qui sopravvivono, come luoghi della memoria, gli ambienti descritti nei suoi libri. Qui difatti tutto rievoca i suoi romanzi e i suoi versi, dalle vie del centro alla stazione ferroviaria, dai nomi delle borgate alla casa di Nuto, fino al Museo Pavesiano, collocato nella suggestiva cornice della casa natale dello scrittore.
E poi il paesaggio langarolo: la valle del Belbo, la geometria delle vigne, i campi riarsi, le rocche ripide e improvvise a precipizio sul fiume…
“Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra”.
Infine i grandi falò estivi che illuminano le colline fino a Ferragosto, attorno ai quali si rincorrevano i ragazzini e si faceva festa almeno una volta.
Per quanto riguarda le origini di Santo Stefano bisogna risalire al secolo X: il centro sorse infatti attorno all’abbazia di San Gaudenzio; ci sono tuttavia alcuni storici che sostengono origini di epoca romana, come dimostrano reperti archeologici trovati lungo il tragitto di una via Emilia che da Pollenzo per Alba, Neive e Castagnole si dirigeva verso Nizza, Dertona (l’odierna Tortona) e i grandi centri della pianura padana. La stessa abbazia di San Gaudenzio, che sorgeva lungo la riva sinistra del fiume Belbo, poco prima dello sbocco del Tinella, a breve distanza dall’attuale nucleo abitato, fu innalzata su un tempio romano preesistente. Allo stato attuale, la chiesa abbaziale di San Gaudenzio, di origine benedettina (dichiarata extra usum religiosum sin da 1891) è destinata ad uso privato: rimangono tre absidi, la navata sinistra e i resti di mosaici nella sacrestia, che comunque meritano la visita.
Un’altra immagine del passato medievale della cittadina sono poi i ruderi di una delle torri dell’antico castello che dalla sponda destra del fiume Belbo dominava il paese sulla sommità di una rocca piuttosto imponente. Ciò che rimane è con buona probabilità il risultato di quanto accadde nel 1635 durante le rivalità tra gli spagnoli e gli austriaci che se ne contendevano il possesso.
È bene poi ricordare che se per molti Santo Stefano è innanzitutto Cesare Pavese, ad altrettanti il paese ricorda in primis il vino: siamo difatti nel cuore della zona del Moscato, che qui si magnifica di preziosi sorì (gli appezzamenti a sud, di solito di piccole dimensioni che rappresentano l’eccellenza della produzione enoica) definiti spesso eroici, perché così erti e irraggiungibili da farsi coltivare solo mano, a prezzo di enormi fatiche.
È sufficiente, a tal proposito, ricordare la frase latina che fa parte dello stemma civico e del gonfalone (Vitis Sancti Stephani Ad Belbum Vita) per avere un’idea di quanta importanza abbia avuto, già in epoca assai lontana, la vite coltivata su queste colline.
Proprio tra le colline che ne circondano l’abitato si aprono dunque gli spettacolari anfiteatri del moscato, stretti a terrazze di pietra, attorcigliati nelle curve tortuose delle chine scoscese, ampi e brillanti sui colmi più dolci di Valdivilla, frazione al confine con Mango e Castiglione Tinella, nel triangolo più bello del Moscato. Salendo lassù tra le colline più alte, tra la chiesa della Madonna della Neve a Moncucco (da dove ogni anno il 4 agosto parte il segnale per i grandi falò d’estate), l’ex convento di San Maurizio (che oggi ospita il più bell’albergo delle Langhe), Camo e la Madonna della Rovere si godono i panorami migliori, mai uguali, a volte stretti nelle rocche più impervie, a tratti ariosi nell’infinito ripetersi di colline distanti, sempre imprevedibili: mutano ad ogni curva della strada. E le strade che scendono al Belbo sono tutte tortuose.
Ma, come già detto, accanto a questi luoghi mozzafiato, Santo Stefano può accostarne altri, certo meno appariscenti ma altrettanto affascinanti: i luoghi della memoria, della mente e del cuore appunto; e forse sono proprio gli spazi ideali, quelli più ricercati dalle ultime generazioni di turisti.
I luoghi pavesiani dunque: paesaggi e località resi celebri dallo scrittore e per sempre fissati nell’immaginario di milioni di lettori, che come sempre si lasciano alle spalle Canelli “che odora di vinacce, di arietta di Belbo e di vermuth” e attraversando furtivi “la Porta del Mondo” spingono ancora una volta lo sguardo “tra le case in collina”. Subito, quasi di guardia sul lato destro della statale c’è la Casa di Nuto, (al secolo Pinolo Scaglione, scomparso nel 1990), donata dagli eredi al comune, ed oggi trasformata in casa-museo.
“Il falegname del Salto, il mio complice delle prime fughe a Canelli. (...) Per lui il mondo era stato una festa continua di dieci anni, sapeva tutti i bevitori, i saltimbanchi, le allegrie dei paesi. (...). La sua casa è a mezza costa sul Salto, dà sul libero stradone; c’è un odore di legno fresco, di fiori e di trucioli che, nei primi tempi della Mora, a me che venivo da un casotto e da un’aia sembrava un altro mondo: era l’odore della strada, dei musicanti, delle ville di Canelli dove non ero mai stato”.
Dalla casa di Nuto si inerpica il sentiero del Salto: “una riva di gaggie, di felci e di sambuchi, sempre asciutta d’estate”, e più in alto, semi-nascosto tra gli alberi, la palazzina del Nido, che domina la collina “rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dell’estrema collina”. Quasi in faccia alla Casa di Nuto, tra la strada e la ferrovia, affacciata sul Belbo c’è la grande cascina della Mora, “era come il mondo… Era un’America, un porto di mare. Chi andava, chi veniva, si lavorava e si parlava”… e la Mora si è conservata quasi intatta, con il bellissimo cortile interno acciottolato, “il finestrino rotondo che guardava la collina del Salto, la torretta della piccionaia” e tutto il resto. Oggi più che mai avrebbe bisogno di un intervento conservativo. Dietro alla Mora, oltre la ferrovia e il fiume, si estende la collina di Gaminella, aspra e secca: la più lunga del territorio, lunga fino a Canelli “...la collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima - e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri...”. Un luogo da esplorare girovagando per le mille stradine di campagna dove è bello anche perdersi.
Proseguendo verso l’abitato di Santo Stefano, sul lato sinistro si arriva alla casa natale dello scrittore, sulla cui facciata spicca la lapide con i versi tratti da Il mestiere di vivere:
“La mia parte pubblica l’ho fatta
Ciò che potevo ho lavorato
Ho dato poesia agli uomini
Ho condiviso le pene di molti”
È firmata semplicemente: “La gente della sua terra”. L’architettura della casa, in cui non c’è più l’originario giardino, si discosta da quella tradizionale contadina. Attualmente è sede suggestiva del Museo pavesiano e vi si assegna ogni anno il prestigioso Premio Pavese.
Oltre il fiume, poco distante, c’è la piccola stazione di Santo Stefano, da dove arrivano e partono i personaggi di Pavese: è ancora la stessa con i suoi binari e la trattoria, solamente non è più in funzione ed è circondata da un senso di trascuratezza, come un luogo fuori dal tempo.
“Sentivo tra i peschi arrivare il treno e riempire la vallata filando o venendo da Canelli, in quei momenti mi fermavo sulla zappa, guardavo il fumo, i vagoni (...). Fu Nuto che mi disse che col treno si va dappertutto e quando la ferrata finisce cominciano i porti, e i bastimenti vanno a orario, tutto il mondo è un intrico di strade e di porti, un orario di gente che viaggia”.
Nel personaggio di Anguilla (che torna al paese dopo aver fatto fortuna in America) c’è poi molto di un cugino di Cesare, Silvio Pavese (“l’unico dei Pavese che ha contato qualcosa finora e che è stato un uomo”) che davvero girò mezzo mondo, ritornando infine a Santo Stefano; A Silvio, il cugino Cesare aveva già dedicato I mari del Sud, la prima poesia di Lavorare stanca. Ma ne La luna e i falò, la storia di Silvio si mescola con i desideri dello scrittore (“Sogno, spero, aspiro, fino a morirne, l’America. Devo andarci”) e con il suo reale ritorno: anche Cesare al suo ritorno a Santo Stefano sarà una piccola celebrità, “la cui compagnia viene cercata da tutti i notabili” ma in qualità di scrittore ed intellettuale; come ricorda Natalia Ginzburg in Ritratto di un amico:
“Pavese diventò, negli ultimi anni, uno scrittore famoso (…) Quando gli chiedevano se gli piaceva d’essere famoso, rispondeva, che se l’era sempre aspettato… Ma quell’esserselo sempre aspettato, significava che la cosa raggiunta non gli dava più nessuna gioia”.
Giunti in paese, due passi poi tra le ombrose vie strette del centro storico dove oggi si è recuperata la ex-parrocchiale dei SS. Giacomo e Cristoforo come sede del nuovo Centro Studi sullo scrittore (il precedente è stato devastato dall’alluvione del ‘94), ecco quei due passi ci restituiscono a tratti l’anima del vecchio borgo, soffocata altrimenti da un numero impossibile di condomini.
Ma forse l’atmosfera migliore la si respira (benché adeguata al ritmo di oggi) in piazza alla domenica, sotto il Foro Boario o nei capannelli davanti alla chiesa, subito dopo la Messa… lì si ritrovano a volte, negli sguardi e nei volti dei langhetti, tanti dei tratti che lo scrittore seppe fissare sulla carta. E anche se l’Albergo dell’Angelo oggi non c’è più, le figure di Pavese, quegli archetipi ancora si ritrovano in tutta la loro autenticità, scavalcando agilmente le barriere del tempo per riproporsi immutati, scolpiti per sempre nei gesti, nei pensieri, nelle intenzioni.
Da Santo Stefano il nostro itinerario prosegue in direzione di Cossano Belbo. Attraversate tutto l’abitato lungo corso Piave, dopo qualche chilometro deviate a destra per Camo. Dopo pochi metri, superato un ponte, girate a sinistra. La strada è ripida, si susseguono numerosi tornati, attorno a voi è rigogliosa la natura più aspra; in cima vi sta Camo, paese di poche centinaia di anime, ma che vanta una delle terrazze più belle sulla Langa. Dalla piazza del paese si può dominare tutta la valle del Belbo. Camo invita i turisti a passeggiate contemplative che hanno come punto di riferimento la piazzetta antistante la chiesa e il palazzo municipale, angolo molto suggestivo e raccolto.
Ritornati sulla statale, continuate il viaggio fino a Cossano Belbo. È questo un paese che riporta indietro nel tempo. Vestigia romane se ne trovano ovunque: in località Casareggio è stata rinvenuta una stele funeraria, allo Scorrone in località Castello esistono resti di antiche necropoli, altrove avanzi di selciati di epoca romana. La piazza del paese ricorda invece Pinin Balbo, prima medaglia d’oro della guerra partigiana, morto nella battaglia di Valdivilla, come narrato da Beppe Fenoglio.
Cossano conserva anche una “reliquia” enogastronomica: la Trattoria della Posta -da “Camulin”, una dei più vecchi ristori ancora in attività, da sempre al confine tra due paesaggi di Langa: la sosta per i celebri tajarin o per il più corposo fritto misto è d’obbligo per ogni buongustaio. Altro vanto di questo piccolo paese è il bianco e fruttato Furmentin, vino tradizionale prodotto soltanto qui e a Rocchetta Belbo.
Da via Caduti per la Patria potete scorgere l’indicazione per il Santuario Madonna della Rovere, che dista qualche chilometro da Cossano. Eccezionale punto d’osservazione della Valle del Belbo, anche questo luogo ci riporta a La luna e i falò:
“Una siepe di prugnole mi chiudeva l’orizzonte, e l’orizzonte sono le nuvole, cose lontane, strade, che basta sapere che esistono. La Madonna della Rovere è sempre esistita, sulle coste, sulle creste dei paesi, ci sono chiese e masse d’alberi impicciolite nella distanza (…) Queste chiese di cresta sono tutte così. Ce n’è sempre qualcuna più lontana, mai vista. Tanto vale fermarsi a due passi e sapere che tutta la terra è un gran bosco che non potremo mai far nostro come un frutto. (…) La Madonna della Rovere era come il santuario delle cose nascoste e lontane che devono esistere”.
Da Cossano a Rocchetta, una delle “porte” dell’Alta Langa, ci sono una manciata di chilometri. Il paese, che anticamente sorgeva sopra una rocca sulla destra del Tanaro, fu ricostruito più in basso dopo che una frana lo distrusse nel 1857. Poco si sa sulle sue origini, si può soltanto dire che nel XII secolo passò dai Marchesi di Cortemilia a quelli di Busca e che prima di pervenire ai Savoia fu feudo di alcune nobili famiglie astigiane. La parrocchiale del 1869, in piazza Libertà è dedicata a San Nicolao. Tra le curiosità, Rocchetta vanta nel 1244 il passaggio di Papa Innocenzo IV, che fuggiva in Francia per non cadere nelle mani di Federico II.
Rocchetta dà il nome a un’ottima robiola, composta in egual misura di latte vaccino, latte di pecora e di capra, che continua ad essere prodotta nell’alta valle Belbo.
La Valle oltre Campetto si stringe in una forra boscosa, senza più vie da percorrere. Girandosi il Belbo scorre placido verso Canelli e le colline morbide che tanta parte di immaginario occupano nei versi di Pavese.
Come canta Pavese nelle sue poesie di Lavorare stanca:
“La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Quest’ultima celebre frase sottolinea benissimo la durata definitiva, eterna, di questi luoghi e lo spirito magico che anima forse ancora queste colline.
Le Langhe come una piccola Itaca, viste non soltanto come un luogo geografico, ma uno spazio metastorico dove può aversi ancora l’epifania del primitivo. È il vertiginoso viaggio all’indietro verso le origini.
Un viaggio che i personaggi pavesiani compiono, ma (come aveva detto Monti) una volta raggiuntane la consapevolezza, tale conoscenza non è consolatoria -e neppure appaga- ma anzi è tragica, perché il viaggiatore scopre che spesso le radici sono violenza, sangue, immolazione rituale...
“È laggiù che s’accende il ricordo di ieri.
È laggiù che quest’oggi sarà il calore/
l’osteria la veglia le voci roche/ la fatica. Sarà sulla piazza aperta.
Ci saranno quegli occhi che scuotono il sangue”.
E alla fine del viaggio rimane in bocca il gusto dolce-amaro della nostalgia.