Tu sei qui
We always did feel the same... (Tangled up in Blue)
Barbaresco, Terrazza del Pajoré, 17 luglio 2012
Cristina e Valeria hanno appena portato in tavola una pasta fredda molto estiva: penne con dadolata di mozzarella e pomodoro e olio extravergine. Il profumo estatico del basilico strappa un sorriso compiaciuto a John Hume, britannico di Belfast ma più mediterraneo di me; perfino i due norvegesi Geir e Knut si distraggono un momento dalla sistematica opera di distruzione del mio bar. Jimi e Ana (lui tedesco, lei croata) esclamano "oh schöne" e iniziano a piattare per tutti. Io intanto sto stappando un magnum di Timorasso 2005 di Valter Massa, anno di nascita di mia figlia Ida (che di questo vino temo ne berrà molto poco).
È il giorno dopo il concerto di Bob Dylan a Barolo e, come ovvio e giusto, ho la casa piena di amici che di solito incontro in mezzo mondo e oggi -che bello- sono invece tutti a casa mia! Passeremo la giornata a cazzeggiare amabilmente, poi qualcuno partirà per la Francia (la prossima tappa del tour), qualcuno semplicemente tornerà a casa, per rivederci ad un prossimo concerto da qualche parte sulla strada.
Ecco: ho appena scritto una frase che è una citazione involontaria di Tangled Up in Blue, perché oggi anche io sono qui impigliato nella tristezza o meglio nella malinconia che spesso i ricordi generano.
I see, I see lovers in the meadow / I see, I see silhouettes in the window… (Love Sick)
Granada, giardini dell'Alhambra, luglio 2015.
La terrazza verdissima del Parador guarda i giardini del Generalife, 40 gradi all'ombra, con simpatici vaporizzatori di acqua dalle pergole e un ancor più simpatico barman che -senza manco strofinarlo- io desidero e lui esaudisce, meglio del genio di Aladino!
Sono di nuovo sulla strada, una strada imprevista che mi ha portato per la prima volta in Spagna... e pure d'estate! Ma sono solo.
L'altra sera a Madrid, Dylan ha ancora messo in scena uno dei suoi sogni da bambino: fare il crooner di qualche fumoso locale di Chicago, cantare Sinatra senza sbavature, e intanto abbattere ancora una volta le statue che giornalisti e fans erigono continuamente a sua maggior gloria e celebrazione (statues made of matchsticks crumble into one another, cantava a ventiquattro anni, in una delle sue/mie canzoni preferite di sempre) e cambiarsi d'abito fino alla prossima tappa.
Ha cantato benissimo, tenendo un concerto intimo che infatti non decolla mai nell'urlo liberatorio di "How does it feel?" o nel rock apocalittico di Watchtower ma resta invece sospeso tra gli anni '30 e '50 con pezzi recentissimi (canta moltissimo di Tempest, l'ultimo grandioso capolavoro) che potrebbero però appunto essere di 60 anni o perfino 100 anni fa.
In effetti da Time Out Of Mind in poi ha ancor più attinto all'archivio sterminato delle roots americane e così gli ultimi album sembrano quasi una compilation di quei pezzi che lui captava da ragazzino, su misteriose stazioni radio, di notte nella sua camera a Duluth in Minnesota, nel buco del culo del Midwest.
Il motivo di questi concerti raccolti credo stia soprattutto nella volontà di risparmiare la voce per cantare ogni sera magistralmente alla fine di ogni set Full Moon And Empty Arms e Autumn Leaves (o un qualche altro pezzo di The Voice che ha appena inciso in Shadows of the Night): un grande omaggio a Frank Sinatra (a cui un tempo già dedicò Restless Farewell) per il quale evidentemente Bob ha abdicato alla solita regola del "mai un concerto uguale: si suona quello che mi passa in testa oggi, nel modo e nel tono che decido al momento" regola che ha fatto di lui il più grande performer del mondo.
Oggi i concerti sono tutti diabolicamente identici, per cui forse ci si concentra maggiormente sulle parole che canta (e che cambia ogni volta).
E proprio come per Nostradamus, anche nelle canzoni di Dylan chiunque può leggervi infiniti ipertesti e trovare così anche la conferma delle proprie teorie più strampalate.
Come tutti qui davanti, io conosco le canzoni a memoria, parola per parola, rima per rima, intonazione per intonazione, e ogni sera mi fermo su frasi diverse e ogni frase mi apre un film di ricordi per semplice associazione di idee.
Sono 24 anni che lo seguo, più di metà della mia vita, e -ça va sans dire- gli sono grato per mille motivi.
E per mille incontri.
I got a brand new suit, I got a brand new wife... (Workingman Blues #2)
New York City, bar del Madison Square Garden, novembre 2001.
Dylan ha appena eseguito un concerto pazzesco, epico e drammatico, nella sua città, appena due mesi dopo l'11 settembre. Per una volta ha pure parlato: "you don't have to ask me how I feel about this city" ha detto prima di attaccare Just like Tom Thumb's Blues che è dedicata proprio a NY; poi ha chiuso con una versione devastante di All along the Watchtower che d'ora in poi ripeterà il primo verso "There must be some way out of here" nel finale.
John Hume è un mio caro amico, abbiamo attraversato mezza Italia assieme appena pochi mesi prima, ha un senso dell'umorismo unico ma non sempre facile da apprezzare. Passa tutti i concerti a fare foto "proibite" a Bob, facendosi spesso buttare fuori da Baron (l'angelo custode di Dylan)… ma poi è il management stesso a chiedergli le immagini quando deve pubblicare qualcosa!
Una volta, appena ci eravamo conosciuti, per deformazione professionale gli chiesi "Ma tu che fai il fotografo e sei di Belfast hai mai fatto foto alla Marcia degli Orangisti o durante gli altri scontri tra cattolici e protestanti?" -"Mai." - "Perché? - "Semplice: perché non voglio morire!" e rise di gusto con quella risata roca che finiva immancabilmente in una golata di birra.
Un'altra volta invece fu lui a parlarmi degli Irlandesi e dell'odio che li separava, un odio atavico e viscerale. Io lo pigliavo per il culo e lui mi ripeteva: "Tu non puoi capire: cresci in un quartiere a Belfast o a Londonderry e ti sembra il posto piu bello del mondo… poi a 12-14 anni capisci che se solo sbagli quartiere sei morto. A 16 devi chiedere alle ragazze il nome prima ancora di parlarci, perché se hanno nomi cattolici devi lasciar perdere subito oppure i parenti ti spareranno. Lo stesso vale per loro ovviamente. Fottuti sporchi bastardi irlandesi…tu non sei cresciuto lì, tu non puoi capire. L'Irlanda del Nord non è un posto facile". E io gli dicevo "E Ken allora? (un carissimo ragazzo di Dublino, nostro amico)" - "Ken è ok, Ken è a posto, Ken è un mio amico…ma gli altri fottuti porci irlandesi sono tutti dei bastardi!" niente, non c'era verso: John, l'uomo più tranquillo e pacifico del mondo, aveva anche lui i suoi fantasmi. Chissà che cazzo gli avevano fatto gli irlandesi da ragazzino…
Comunque siamo in 'sto bar dopo il concerto e lui mi abbraccia e mi indica i suoi bellissimi stivali di serpente. "Ti piacciono? Ne ho appena preso due paia, belli così li trovi solo a NY." - "Belli John, ma saranno cari…(John non aveva mai soldi) - "Oh quello non è il problema principale della mia vita! Sai, mi sono appena mollato con la mia ragazza: e siccome lavoravo con lei e abitavo da lei, ora sono senza donna, senza casa e senza lavoro! E lo sai? Non mi sono mai sentito cosi bene!" e ride di gusto, ubriacandosi con me e Tommy, uno che lavorava nella city ed era sconvolto dall'attentato ma pur da disoccupato continuava a pagarmi birre e cocktails dicendo "Keep your fucking euros for my first time in Europe!". Povero disperato Tommy: non l'ho mai più visto.
Invece John l'ho visto per anni, fino a quel giorno d'estate in terrazza a casa mia.
Nemmeno un mese dopo, John era morto: infarto di notte a casa di Knut in Norvegia. Valeria, la sua compagna, meravigliosa anima di Catania, non si è accorta di nulla. Al mattino, semplicemente, John non c'era più, volato via nel vento. Io ero a Limone e Andrea Orlandi che mi telefonava non riusciva nemmeno a dirmelo. E, ovviamente, Workingman blues è un pezzo fisso di questo tour.
Don't get up gentlemen, I'm only passin' through… (Things Have Changed)
San Benedetto Belbo, Privativa di Placido, marzo 2013.
Io, Jimi e Ana ci aggiriamo tra i cortili della Privativa -abbandonata assieme al crack del Grinzane Cavour: una brava persona ci apre una porta e Jimi riesce a dare una sbirciata dentro al negozio, dove io ancora incontrai Placido e sua moglie nel 1997, con lui che zappava l'orto e lei che mi offriva il caffé.
Jimi Vogler è stato un produttore di film tedesco, sua moglie Ana è tuttora coinvolta nel mondo europeo della celluloide; li conosco da una vita, la prima volta a Monaco lui era incazzato per la speculazione che i produttori di vino piemontesi facevano ogni anno, aumentando i prezzi senza ragione.
Un'altra volta mi raccontò di come avesse imparato l'italiano: tra i fuoriusciti della sinistra extra-parlamentare italiana, scappati in Francia e in Germania negli anni di piombo. Jimi era un marxista convinto, quando eravamo a Londra andava sempre a posare un fiore sulla tomba di Marx. Ma era un pacifista ancora più convinto. La rivoluzione non faceva per lui: come molti tedeschi era più filosofo che guerrigliero, era in tutto un uomo profondo e riflessivo.
Ma la sua casa era aperta per chiunque, la sua macchina ha portato più gente di un bus, la sua mente era lucida e sempre pronta ad accogliere cose nuove, idee, punti di vista, opinioni. Un uomo di una cultura sterminata, più piccola solo della sua insaziabile curiosità.
Ma tutto mi sarei aspettato tranne che si appassionasse a Fenoglio.
E invece io gli avevo parlato del nostro scrittore proprio a Barolo e lui se lo era segnato, aveva comprato e letto l'opera omnia in tedesco (e qualcosa pure in italiano) e adesso, sei mesi dopo, era tornato qui da me con Ana, per vedere i luoghi di Fenoglio e guardare queste colline con altri occhi.
Era venuto qui a posare un altro fiore.
E lì a San Benedetto mi ha afferrato un braccio e mi ha detto: "Io sono felice che la Germania abbia perso la guerra. L'unico modo che avevamo per liberarci di Hitler era la nostra completa distruzione. E questo è giustamente e puntualmente avvenuto." Me lo disse in italiano, incespicando nelle parole con quel modo buffo che aveva di parlarti da dietro gli occhiali, tirandosi indietro la foresta di capelli bianchi e guardandoti sempre negli occhi. I suoi occhi, ancora più azzurri dei miei.
The more I take, the more I give; the more I die, the more I live…(Pay in Blood)
Nel 2011 siamo a Wiesbaden (dove Jimi era nato) e a mezzanotte finiamo a girare in dieci per la città cercando un ristorante ancora aperto, finché un libanese in Taunus straße non ci accoglie benevolmente. Io però ho una cassa di Barbaresco portata per l'occasione e Jimi è preoccupato che non ce la lascino aprire: "in Germania non si usa portare il vino al ristorante" - "Ma in Libano sì! Sereno, ci parlo io." …ovviamente non abbiamo difficoltà, anzi il maître mi dice pure di essere astemio e sommelier (!) "e come fai?" - "degusto e sputo" - "Allora non voglio sapere come scopi!" mi scappa di rimando… e lui ride come un bambino, e noi con lui. Poi ci mangiamo tutto il menu, che eè tutto buonissimo (i libanesi sono l'aristocrazia della cucina medio-orientale) ma come al solito nessuno riuscirà a pagare: Jimi è stato più veloce… come sempre, come quando si tratta di entrare al concerto: sempre primo; come se si tratta di comprare i biglietti: sempre in tempo e sempre tanti, così se un amico è senza, lui lo può aiutare.
Come alla Royal Albert Hall nel 2013, che Pietro è partito all'ultimo ed è senza biglietto e lui mi copre subito due sere e poi mi trova il biglietto per l'ultima sera in quinta fila, che finisce il concerto e io urlo cosi forte che Bob si gira, si avvicina e mi stringe la mano, in un teatro in delirio.
E quei biglietti io a Jimi non li ho mai pagati, "impossibile" mi ha detto e non c'e stato niente da fare.
Jimi, che ancora brindiamo assieme a Monaco solo lo scorso autunno, Jimi che ha un tumore e se ne va in tre mesi, senza dire niente a nessuno, Jimi che aveva già i biglietti per il tour estivo.
Shine your light Jimi! …comodi -signori- state comodi, sono solo di passaggio… Ti piaceva tanto quella frase di Things have changed, Jimi… ma mi hai fatto piangere, lo sai? E Bob adesso me la canta tutte le sere.
I've a date with the fairy queen… (Soon after Midnight)
Alba, in ufficio, 4 luglio 2015.
Sto per partire per la Spagna quando leggo che Maria Luisa Fassi è morta: qualcuno l'ha accoltellata nella sua tabaccheria di Asti. Maria Luisa è la figlia più grande di Pina e Piero Fassi, cioè la figlia del Gener Neuv, un locale a me molto caro… ma fosse stata la figlia del porcaro della discoteca sarebbe stato orribile uguale. Solo che così sei più coinvolto e pensi che non eri nemmeno ancora andato a trovarli nel nuovo locale e che un dolore del genere Pina e Piero proprio non se lo meritavano (ma chi se lo merita?) e mi tornano le parole di Giovanni Ferrero al funerale del fratello Pietro “un padre che seppellisce il figlio è contro natura, è una cosa così impensabile e terribile che non esiste nemmeno una parola per dirlo". Ecco, anche io non ho parole, solo ricordi, dolore e malinconia…ancora tangled up in blue.
Il 4 luglio era anche l'anniversario di Alice nel Paese delle Meraviglie, uno dei più straordinari romanzi mai scritti, creato dalla fantasia di un matematico -Charles Dodgson- per una bambinetta -Alice Liddell- che lo stregò durante una gita in barca sul fiume nel 1865.
Oggi insegnanti pietosi parlano di lui, -passato alla storia col nome di Lewis Carroll- come di un pedofilo, scivolando tristemente dalla grande letteratura nella tristezza del pettegolezzo da portinaie…
Ecco, io vorrei poter fare il contrario, coprendo la cronaca tristissima e impietosa di Maria Luisa con le parole della grande letteratura, con il mondo assurdo e meraviglioso di Alice, dove tutto funziona al contrario, i gatti parlano e i conigli sono sempre in ritardo per feste di non-compleanno, dove le regine sono sì cattive ma alla fine non tagliano la testa a nessuno, dove i soldati sono mazzi di carte e i bruchi fumano il narghilé e tutto è sempre troppo grande o troppo piccolo.
E, dal Cappellaio alla Lepre, sono tutti matti è vero, ma nessuno viene ammazzato a coltellate.
Io voglio credere che, attraverso lo specchio di un mondo al contrario, lassù in Wonderland, ecco là si prepari per sempre il cibo che ci fa sognare e volare e crescere e sognare ancora.
Tomorrow night we'll see what it gonna bring… (Early Roman Kings)
Torino, via Filadelfia, 3 luglio 2015.
Con altri amici ho visto Baron, la guardia del corpo di Dylan, che è spesso una persona gentile e rilassata. Abbiamo chiacchierato un po' dei concerti, del caldo e del fatto che è una vita che ci vediamo on the road. Lui ci diceva ridacchiando: "Non capisco proprio come fate a seguirlo così, se io avessi un mito musicale lo andrei a vedere al massimo una volta all'anno" e noi di rimando: "solo perché per te Bob non è un mito, per te è un lavoro!" - "È vero, ma a ben vedere, sembra ormai un lavoro anche per voi!".
Volevo dirgli che temo che presto saremo entrambi disoccupati.
Ma ho preferito tacere. E intanto pensavo che "there are many here among us, who feel that life is but a joke".
Così gli ho sorriso, gli ho stretto la mano e sono partito per la Spagna da solo, con Alice in testa, i miei ricordi nel cuore e i miei fantasmi per mano.