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“La Langa che verrà” è stato il titolo di un incontro organizzato a Monforte dai simpaticissimi Barolo Boys e a cui hanno partecipato un po’ di amici. Purtroppo non son potuto andare per cui scrivo ora quello che avrei detto, ovvero “La Langa che vorrei” non sapendo per altro quali conclusioni abbiano tirato loro alla fine dell’incontro (e se conclusioni ci siano state eh?).
Parto da un mio vecchio callo: lo sciagurato slogan di Slowfood, ma forse all’epoca era ancora Arcigola (chissà perché un giorno han cambiato nome…non riesco proprio a capirlo): “Buono Pulito e Giusto”.
Sciagurato perché portava l’etica nell’agricoltura, tracciando una linea tra i giusti (o i puliti, o i buoni) e gli altri che per esclusione dovevano dunque per forza essere “cattivi, iniqui e sporchi”…
In questa forma mentis c’è concentrato tutto il manicheismo storico della sinistra che, da Livorno in poi, ama dividere il mondo in amici e nemici, dove gli amici sono solo quelli che la pensano come loro. Almeno finché non cambiano idea e allora, facendo spallucce, essi liquidano l’accusa di voltagabbana con l’altrettanto sciagurato aforisma di Lowell “Solo i cretini non cambiano mai idea!”.
Ecco dunque un mondo diviso in cretini da una parte e opportunisti dall’altra.
Questo slogan ha dettato una linea, in primis, di marketing (ricordo la pubblicità di un’azienda fresca fresca di cambio di proprietà ad Agosto che sosteneva già a settembre di fare l’unico Asti “buono e pulito” …e forse pure giusto) e poi a seguire di mentalità diffusa.
D’altra parte chi non vorrebbe sentirsi buono pulito e giusto?
Anzi, per meglio dire: più buono, più pulito e più giusto (tipo del vicino)?
Da queste parti ad es. fa subito leva sull’invidia e sulla competizione atavica della Langa che tutto è tranne che altruista e generosa (se mai esistono territori che invece lo sono davvero) ma trasportandola in una dimensione etica.
Certificata: io ti dò la patente di buono, io stabilisco chi è nel giusto, io dico cosa è pulito.
Un po’ come fa efficacemente da 2000 anni l’Ufficio Stampa di Dio (cit. W. Allen).
Quando invece, almeno in agricoltura -ricordiamolo bene- cos’è buono lo stabilisce il consumatore attraverso il suo gusto personale, pulito lo decide lo Stato attraverso le leggi per la produzione del vino, e giusto non lo deve proprio decidere nessuno: un prodotto agricolo non è etico, cazzo!
A meno che tu non faccia raccogliere l’uva ai bambini di 8 anni, o magari a 10.000 macedoni stagionali, accampati come bestie…oopppsss!
Ecco la Langa che amo e vorrei è tutta l’opposto di questo concetto manicheo.
Cercherò di fare degli esempi sparsi che forniscano il climax del mio sentire, più che fare una critica dettagliata.
La Langa di oggi non è ovviamente più quella di 40 anni fa, cioè di quando ero bambino e mi disperavo perché tutti (ma tutti) i miei compagni avevano non dico galline e conigli in cascina ma anche maiali, vitelli, capre etc… Io ero l’unico senza e quindi la vivevo come un’ingiustizia.
Oggi, usando il mio parametro d’infanzia, la Langa è ingiusta, perché di contadini viticoltori con anche un po’ di stalla non ce n’è più uno che uno!
Si dirà che è scomodo, che la stalla puzza, che poi arrivano i tafani etc etc. Tutte cose vere ma io credo che il vero motivo siano invece i w.e. al mare, la settimana a Sharm, quella a sciare e in generale l’idea che fare il contadino oggi è solo un mestiere come gli altri, per cui “it’s weekend, sorry we are closed!”
(e invece le bestie mangiano e cagano tutti i giorni - cit. Claudio Adami)
A me sembra che così si sia distorta l’essenza stessa del lavorare e vivere in campagna, che non sarà mai un mestiere come gli altri.
E non parlo solo delle stalle ma proprio del lavorare la terra: il marketing prevale su tutto e più andiamo avanti e più si fa a gara a seguire l’opinione di un giornalista trendy americano, invece di distinguersi, fare altre strade, ignorare il mainstream, convincersi che la forza della Terra Piemonte (e quindi della Langa) è nella sua specificità, nel suo essere diversa e anomala.
Unica e inconfondibile. E irripetibile.
La Langa che non assomiglia mai a nessuno (lo dissero di Anna Achmatova e continuo a pensare che sia la più bella definizione di artista) a partire dai vitigni, per passare al terroir, e infine al paesaggio e al clima: quella è la nostra Forza.
Non le stronzate da hipsters alternativi di Tribeca, che non han mai visto il Monviso ma solo la Paramount.
E diversi sono anche –o almeno eran così una volta– i suoi abitanti, i Langhetti, che erano quelli di Fenoglio e Pavese e magari di Monti; i Paco, i Nuto, gli Agostino, i Bernasca, gli Anguilla quando non i Milton e i Johnny.
E le Langhette quelle de “L’Anello Forte” di Nuto Revelli e delle foto epiche di Aldo Agnelli.
Io vorrei che la Langa non perdesse la sua anima, che feste, prodotti e attività non si facessero solo in funzione turistica ma per il gusto stesso di farle.
Si chiama Identità.
Ricordo oggi con divertimento che una ventina di anni fa (qualcuno anche trenta) i “big” delle colline iniziarono a piantare vitigni internazionali, per il solito malinteso senso di inferiorità, che li spingeva ad avere anche loro “cab, merlot e sirah”.
Il tempo è galantuomo e ormai non c’è più quasi traccia di tutta quella roba inutile.
Inutile perché me la posso bere e comprare in tutto il mondo, per cui che senso ha piantarla –al di là di una genuina passione personale, che però stranamente hanno avuto tutti assieme– dove ho un terroir unico e molto piccolo, che si è selezionato da solo i propri vitigni perfetti e inimitabili?
Allo stesso modo ecco la moda della barrique che spaccò il mondo del Barolo per almeno 15 anni (ricordo una ridicola doppia pagina de La Stampa con il “Parlamento del Barolo” diviso tra progressisti e conservatori) in cui accanto a tre, forse cinque, produttori convinti (tra cui il mio amico Altare che infatti tuttora continua nella sua scelta) c’erano una cinquantina di opportunisti convinti che la barrique fosse la chiave di volta (o meglio di svolta) per avere successo e diventare in fretta dei “big”. Con qualcuno di loro per altro ha funzionato davvero.
Ma io lo chiamo confondere i mezzi con i fini.
Oggi comunque di quei cinquanta modernisti della domenica ne saranno rimasti dieci a usarla in un passaggio (ma usate di tre anni eh?) e gli altri manco ammettono che una volta usavano la barrique (ma solo tonneau ma poco eh?) E che sarà mai? mica è un parente mafioso!
Eppure nel 2000 per Slowfood i vini “buoni” erano solo quelli che sapevano di vaniglia, di caffè, di tostato e in generale di legno francese.
Adesso è il turno del biologico, e peggio del biodinamico, che è chiaramente solo la ricerca di un’altra facile scorciatoia verso il successo.
Gepin goes to Hollywood, glifosato is the new enemy e via minchieggiando slogan e omologandosi al trend d’oltreoceano.
Sento già chi mi accuserà di difendere i veleni… che la salute bla bla bla… perché poi il diserbante non si può vedere bla bla bla.
Mai fatto dare una goccia di diserbante a casa mia, sempre pensato che i trattamenti siano da ridurre al minimo indispensabile e che pesticidi e concimi debbano essere usati con competenza e conoscenza. E rispetto i molti amici produttori che in silenzio e da anni hanno intrapreso la stessa strada per loro libera scelta.
Ma la Guerra Santa no!
Vorrei sommessamente ricordare ai tanti nuovi profeti bio, tutti fanatici e intolleranti, che almeno J.J.Rousseau era persona conciliante (e colta); è vero, anche lui credeva che la Natura fosse buona a prescindere ma va detto che lui faceva il filosofo, non il viticoltore!
E qui cent’anni fa la gente moriva di fame, scappava dalla disperazione in Francia o se poteva in Argentina. Barbaresco -come scritto enne volte- era il paese più povero di tutti quelli della bassa Langa (ma mi rifiuto di credere che fosse più povero di Arguello).
E lo sapete perché? Perché cent’anni fa qui in Langa era tutto BIOLOGICO!
Quindi, prima di fare i luddisti col rolex, riflettete bene se la Natura davvero sia così magnanima o se invece oggi potete trastullarvi con queste ridicole pose new age solo perché prima babbo e nonno sono usciti dalla miseria atavica grazie alla moderna tecnologia!
Che vi han mandato pure a scuola, all’enologica ovviamente, dove dovreste essere usciti studiati o almeno diplomati. E invece di colpo la chimica è il male (forse perché a scuola era quella difficile) e abbracciare le piante, fare pilates all’alba, diffondere Mozart nelle notti di luna piena e seppellire corni di letame con sicuramente qualche parola magica segretissima, quelle sono le soluzioni per ogni problema.
Beh, a me queste epidemie verdi, queste conversioni fulminati sulla via di un ciarlatano come Steiner, questo desiderio improvviso di salvare il pianeta (intanto che cambiano SUV ogni sei mesi) non convincono affatto.
Soprattutto da chi magari prima si diserbava anche l’aiuola di casa oppure faceva i trattamenti con l’elicottero per dire…
Quello che poi mi intristisce di questi produttori non è il desiderio (diciamo genuino va!) di avere colline con meno trattamenti ma la loro ansia di gridarlo al mondo, di scriverlo in etichetta, di parlarne in ogni intervista. Che equivale a dire che invece prima (perché poi nelle stesse interviste rivendicano storie aziendali di secoli, blasonate con stemmi e gonfaloni mai esistiti) si avvelenavano da soli.
Ecco io vorrei che la si smettesse di scimmiottare mondi, tendenze e culture lontane e diverse dalle nostre, che ci si rendesse conto del proprio valore in termini assoluti senza continuamente relativizzarlo ai centesimi di Wine Spectator, che la forbice tra i primi prodotti e gli ultimi fosse più stretta e si allargasse invece quella delle annate che ormai dopo cinque anni non trovi più niente.
Si chiama Personalità.
Un po’ come le mitiche colline dell’UNESCO di cui, mentre scrivo, produttori con case e cantine oscene e capannoni assortiti si riempie la bocca senza ritegno, andando in giro tronfi come piccioni sulla scacchiera a cianciare di paesaggio da difendere e immancabili nonni eroici. Colline che -aggiungo- adesso, tra sovescio selvaggio e mistiche biodinamiche, iniziano a sembrare una giungla di vigneti incolti e abbandonati.
Il tempo e il clima in questo caso sono galantuomini: le anomale gelate di maggio avranno riportato un po’ di gente -e un po’ di vigneti- sulla terra credo e spero.
Dopo la dittatura del monovitigno nella Bassa Langa adesso è iniziata anche quella della Nocciola nell’Alta. Stanno piantando nocciole ovunque! Malgrado i tempi di resa siano di dieci anni corrono tutti dietro alla sirena del prezzo (di oggi). Poi la Turchia farà il prezzo mondiale a prescindere dall’aumento di ettari piemontesi.
Si preannuncia per altro una guerra all’ultimo ettaro perché le stesse alte colline sono oggi anche oggetto di grandi speculazioni per produrre l’Alta Langa.
Signori, sì è partita l’ultima possibile gold rush come nemmeno in Oklahoma nel 1889.
“Look at Mother Nature on the run in the Twenty Seventeen”
L’altro giorno passando da Cascina Langa ho visto che han tirato via gli storici noccioleti e davvero non saprei dire cosa verrà piantato, se alberi o vigna.
Di certo case e cascine di pietra continuano ad andare in rovina e, se continua così, tra vent’anni del paesaggio culturale modellato pazientemente dall’uomo in secoli di fatica, non resterà nulla: solo agricoltura intensiva. Tassare tantissimo i fabbricati storici in abbandono dovrebbe essere una priorità della nostra Regione.
Perché senza l’elemento umano, le Langhe sono solo colline aspre che salgono verso gli Appennini, così come senza un briciolo di cultura, di voglia di studiare e di consapevolezza i contadini di oggi sono solo dei bifolchi arricchiti.
Cioè persone che all’ignoranza han sommato i soldi per ottenere una rara concentrazione di arroganza.
E lo scrivo con amarezza e rassegnazione: meglio, molto meglio, le vecchie generazioni di produttori.
La Langa che vorrei dovrebbe essere più fiera della propria storia di povertà invece di copiare i modelli di successo dai serial tv come Beautiful e Dallas, e quindi smetterla di costruire porcate da parvenu e recuperare invece le vecchie costruzioni abbandonate, dovrebbe usare sì l’inglese ma pure il dialetto (invece di declassarlo a lessico da etichetta con risultati spesso pietosi), dovrebbe privilegiare il consumo locale dei vini, il patrimonio incredibile di ristoranti e osterie, lasciando stelle e mise en place a chi non ha altro da offrire, invece di adeguare orari e menu ad ogni richiesta delirante di stranieri buzzurri e ignoranti (tedeschi che vogliono mangiare alle 6,30…americani che non vogliono l’aglio…vegani che pretendono menu per la loro follia… se ne stessero tutti a casa e qui vengano i curiosi, gli indipendenti, i veri viaggiatori!).
Si chiama Orgoglio.
E veniamo al vero vulnus di questa terra, la madre di tutte le altre sciagure, la vera ragione prima per cui si verificano tutte quelle spiacevoli cose da me sfiorate in questo simpatico e ottimistico pezzo.
Sarebbe ora di svelare agli altri italiani (imprenditori, impiegati, impiegati, commercianti, artigiani, industriali etc etc) che i contadini in Italia non pagano le tasse!
Cioè le pagano sul reddito dominicale del terreno, ovvero quasi nulla. Che è anche una cosa che forse ha senso se coltivi segale in Sardegna o bergamotto in Calabria ma che forse (dico forse eh?) diventa una vera ingiustizia se invece fai Brunello di Montalcino, Barolo o Amarone.
Cioè per chiarire: se tu hai dieci ettari di segale nel Gennargentu (posto che esistano) e dieci ettari a nebbiolo da Barolo a Monforte per lo Stato italiano (sì, proprio quello che a te chiede l’acconto Iva del 98%) è la stessa cosa! E magari l’Europa gli gira anche un po’ di milioni per aiutarli a fare gli investimenti!!!
Capite che poi sentire la parola Giusto diventa un po’ urtante no?
Nessuno accusa ovviamente i ricchi produttori di vino italiani di evadere o eludere alcunché. Faccio solo notare la curiosa anomalia per cui nel 2000 essi godono di un’esenzione fiscale pari a quella dell’aristocrazia negli Stati Assoluti del ‘600…
C’è forse bisogno di che fare un’altra Rivoluzione Francese?
O più logicamente ci sarebbe da mettere mano al settore e inserire nell’esenzione un piccolo coefficiente di valutazione, di nome Fatturato, che preservi Pinòto e le sue due vigne di Freisa e però allo stesso tempo magari trasformi in contribuenti tutti gli altri, che invece oggi sono miliardari intoccabili?
E aggiungo che magari si distingua tra il passaggio generazionale di azienda (che è un po’ una successione anticipata) e invece la cessione milionaria magari a tycoon americani o cinesi (ma pure italiani eh? magari coi baffi…) attualmente esentasse pure quella, in barba alle plusvalenze che invece pagano le altre aziende?
Perché, molto umilmente, io credo che se anche i ricchi produttori di vino iniziassero a pagare le tasse, diventerebbero veri imprenditori, cioè persone che tendono a migliorarsi di generazione in generazione, a progredire in istruzione e visioni, a farsi carico (e non solo economicamente) del bene collettivo che è anche paesaggio, volontariato e donazioni.
Si chiama Equità.
E questo paese sarebbe davvero più giusto e più pulito.
Forse perfino più buono.
La Langa che vorrei si riassume così: Identità, Personalità, Orgoglio, Equità.
Ne ho fatte quattro: non diventeranno famose, non saranno un mantra da salmodiare ad ogni articolo di Il Post o Repubblica, resteranno facilmente lettera morta.
Ma questa è la Langa che vorrei.
Non sarà temo la Langa che verrà.