Tu sei qui
La strada è gialla, piena di ciottoli e ghiaia fine ai lati, con in mezzo due strisce più nette dove passano i carri. Camillo cammina senza fretta, all’ombra del suo cappello di paglia, la faccia al vento che spazza la cresta della collina.
Ogni tanto si siede a riposare su un mucchio di pietre lasciato a lato strada, di quelle che servono per la manutenzione dei muri a secco; intanto passa un cavaliere e in lontananza si vede il carro di Gépin tirato da due buoi che arranca sulla salita. L’osteria li aspetta tutti alla cima dell’erta con acqua e ombra e un bicchiere di vino. Perché la polvere impasta tutto: sudore, abiti, gola… pure lo sterco degli animali che punteggia il nastro bianco srotolato sulla collina. Attorno si zappa a mano una vite bizzosa e irrequieta che spesso prende la malattia e poi non fa più uva. Con una macchina a spalla si prova a dare il verderame che -dicono- faccia miracoli…bastasse questo a salvare la vendemmia sarebbe bello: meglio aggiungere un po’ di Ave Maria e tirare su un pilone votivo per San Donato, ché almeno ci tenga lontana la tempesta.
È il luglio del ’28, Camillo sta camminando tra Cossano e Mango. Ci sono 35 gradi e quasi non si vede la valle dalla cappa di umido che sale dal basso.
Giunto a casa Camillo tirerà l’acqua fredda dal pozzo e si toglierà il caldo nella tinozza in cortile, poi la cena -fredda- perché di accendere la stufa a luglio proprio non se la sente e infine a letto con grilli, lucciole e cicale subito dopo il tramonto. Domani sveglia all’alba: le candele e le lampade a olio infatti si tengono per l’inverno.
La strada è bianca, le rotaie sono i solchi delle slitte, spezzati dalle orme di mille piedi in marcia. La strade corre bianca e diritta nel bianco infinito dell’orizzonte e il vento gelato taglia la pianura come la falce il grano.
Camillo marcia, o meglio arranca, con pochi amici che si trascinano attorno a lui. In lontananza si sentono esplosioni e raffiche ma a vista d’uomo non c’è anima viva, se non la loro pattuglia, radi alberi coperti di neve gelata e qualche rottame di ferro che non fuma nemmeno più.
Camillo ha buttato il fucile e lo zaino, tanto non ha più cibo, e si tiene stretta una coperta che è riuscito a salvare nella ritirata. I suoi compagni sono messi come lui.
Vorrebbe scrivere a casa ma sa che se si ferma non si alzerà più. Pensa con tutte le sue forze alla sua famiglia, a sua madre, al verde delle Langhe e alla voglia che ha di tornarci vivo.
La scena si allarga sull’immensa distesa dove altre migliaia di punti neri come formiche brulicano nella vastità del nulla e dell’oblio.
È il gennaio del 1943, da qualche parte a sud ovest del Don… e quegli uomini coperti di stracci che frullano tra le raffiche di neve sono tutto ciò che resta della Cuneense.
La strada ora è grigia e Camillo è ancora lì che cammina da Cossano a Mango, le vigne sono molto di più e molto più belle. Pietre lungo la strada non ce ne vedono da tempo, in compenso ci sono paracarri, lampioni e panchine. Anche buoi, cavalli e zappe sono spariti: non trovi più una merda per strada a pagarla oro!
Solo il vento e il caldo sono più o meno gli stessi.
Il pilone di San Donato è tutto sbilenco e malconcio: d’altra parte con i cannoni antigrandine la sua protezione serve più a poco.
Ma conviene tenersi bene sul ciglio perché in compenso le macchine sfrecciano veloci e Camillo ora un po’ barcolla. Si ferma accanto al pilone e tira fuori il telefono cellulare: chiama il nipote che lo venga a prendere, perché voleva fare due passi ma adesso è stanco e fa troppo caldo.
La cimatrice si arresta mentre, con un gesto della mano, Camillo richiama l’attenzione del contadino: il trattore si ferma proprio sotto di lui tra il fosso e la vigna: “Ati caicòs da bèive, per piasì?” – “Mi scusi ma io parla poco italiano e no capisce dialetto, arrivato di Macedonia da un mese!” gli sorride l’altro.
Con un gesto brusco allora Camillo gli fa segno che non importa: si siede, si fa aria col cappello e si gira a guardare in basso verso la valle coperta di umidità.
La stessa foschia, gli stessi profili morbidi di tanti anni fa alla fine non è cambiato nulla se non che ora Camillo ha la tv, l’acqua calda, il gas, la luce elettrica e c’è il nipote che gli parla sempre di una cosa strana che si chiama internet… che sembra che ci puoi fare tutto.
“Intanto qui per fare il vino oggi c’è bisogno dei macedoni, altro che internet -pensa tra sé- e meno male: perché se fosse per i nostri nipoti diventiamo tutti astemi.”
Poi rivede sua moglie, i tre figli e i nipoti, e tutti i cani che gli han fatto compagnia, e le vigne e il grano, e la casa che si è costruito dopo la guerra che ora i figli schifano un po’… già la guerra…questi qui la guerra mica l’han vista, loro!
Poi gli viene in mente che forse il macedone invece l’ha vista eccome “…ecco perché è ancora uno che ha voglia di lavorare in campagna!” conclude tra sé.
Ripensa alla sua gioventù di balli a palchetto e scazzottate con quelli del paese rivale, alla visita di leva con conseguente festa e ciucca per tre giorni, e inevitabilmente a tutti i suoi amici rimasti nella neve lassù, all’Italia che la sua generazione ha ricostruito dal buco di fango e merda in cui era finita nel ’45 …che altro che le strade della sua infanzia; pensa ai misteri della vita, adesso che ha passato i cent’anni… e al senso di inutilità che lo accompagna adesso e soprattutto a quanto sia stato tutto così diverso da come se lo fosse immaginato.
Guarda i contadini moderni che (ce ne sono un paio anche lì attorno) adesso sono tutti bio-dinamici, che Camillo manco ha capito cosa vuol dire, ma sa che suo padre li prenderebbe a bastonate col manico della zappa! Altro che trattore, trattamenti e macchinari: questi una vigna da cavé a man non l’hanno mai vista, una vendemmia persa per la malattia nemmeno e intanto cianciano di ritorno alla natura ma se gli togli l’aria condizionata dalla macchina muoiono dopo due curve. Mentre lui se ne è tornato a piedi dalla Russia e il primo trattore lo ha visto lavorare a cottimo che era il ’56!
Si alza e va verso la curva della strada: chissà forse adesso spunterà il carro di Gépin, coi buoi più forti di tutta la Langa, e lui si sveglierà da questo sogno così strano.
Invece è il rumore del clacson che lo desta di botto.
Suo nipote si ferma e, strapazzandolo perché era in mezzo alla strada, se lo carica in macchina per riportarlo alla casa di riposo.