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anViagi 145L’Anticipazione

La Storia e le storie

Pietro Giovannini28 luglio 2014

Cent’anni fa la Grande Guerra.
Massimo Bubola, nel suo ultimo lavoro, ne salva il significato e l’eredità.

 

Voi non potete parlare – urlò il Fenoglio. – Non dovete! – La sua voce investiva come un vento i vecchi, smorti tendaggi. – Voi non avete visto il sangue e la merda e il fango. Vecchi maiali, andate a vedere la merda e il sangue e il fango e poi parlerete, se ne avrete ancora voglia.
Da “La Licenza” di Beppe Fenoglio

 

Un secolo fa -il 28 di luglio 1914- iniziava il Novecento e la carneficina della Prima Guerra Mondiale chiudeva definitivamente la visione ottocentesca della guerra di cavalleria, degli Imperi, della centralità dell’Europa.

L’Europa, quell’Europa così come era stata disegnata al Congresso di Vienna -con una lungimiranza e un equilibrio davvero rari- moriva per sempre tra Sarajevo, la Maginot, le montagne del Carso, Gallipoli e i Carpazi.

Il secolo che arrivava con 14 anni di ritardo avrebbe portato il progresso tecnologico a rendere le guerre totali, micidiali e mondiali. Gli storici lo chiamano “secolo breve” perché lo si fa terminare nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda. 

Il nuovo secolo che stiamo vivendo ci ha portato in una realtà policentrica in cui il vecchio potere di USA e URSS si è frammentato in diverse sfere di influenza che si muovono secondo logiche diverse e sempre più incontrollabili. Medio Oriente, Brasile, Turchia, Cina, India, Russia sono oggi potenze regionali con cambi di prospettive e alleanze, repentini e occasionali. In parte si è tornati al mondo ottocentesco ma su scala mondiale.

Oggi però la nostra generazione si trova in una postazione visiva privilegiata perché da un lato ha avuto contatti diretti con le persone che arrivavano ancora dall’Ottocento,  da quel mondo “di prima del motore” -cioè i nostri nonni- e che poi avevano attraversato tutto il Novecento con il suo carico di tragedie e meraviglie. Dall’altro siamo proiettatati nel terzo millennio, per cui ci sembra normale abbracciare mentalmente tutto il secolo breve come parte della nostra storia personale.

Per noi insomma la Grande Guerra è ancora qualcosa di prossimo, anche se avvenne cento anni fa. 
Io stesso ricordo i reduci dei Vittorio Veneto che sfilavano a Treiso ogni aprile e ogni novembre. Così come la Seconda Guerra Mondiale, con il suo carico di parenti partigiani, di zii  morti in Russia o internati in Africa è storia di appena ieri: tant’è che a scuola i programmi si fermano lì! …gli ultimi 70 anni in fin dei conti storicamente sono poca roba: pace, prosperità, progresso…niente di interessante!

 

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Soldati italiani in trincea

 

“Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi”
(Guglielmo II alle truppe nell’agosto 1914)

 

Quel 28 luglio, nel dichiarare guerra alla Serbia (e di conseguenza all’intero sistema di alleanze europee) l’Austria-Ungheria, come tutte le altre Cancellerie, pensava a una scaramuccia di pochi mesi che cambiasse alcuni pesi politici sullo scacchiere mondiale (essenzialmente europeo per altro), senza creare alcun cataclisma reale.

L’Austria pensava di prendersi il resto dei Balcani, la Germania di espandersi soprattutto ai danni dell’Impero Russo, l’Inghilterra voleva mantenere una supremazia marina che scricchiolava, la Francia cercava una rivincita di Sedan, l’Impero Ottomano sperava di risolvere i propri prolemi interni, i Russi di frenare l’Imperialismo tedesco e allargarsi ai danni dei turchi, l’Italia voleva le terre irredente… Col senno di poi a spegnere l’incendio sarebbe bastato un nuovo Congresso di Vienna. 

Invece accadde l’irreparabile.

E come rappresenta benissimo Fenoglio, coll’intuito del narratore di razza, l’irreparabile era un martirio di sangue, merda e fango che uccise una generazione intera.

Scorrendo oggi le statistiche dei morti della Grande Guerra (in una guerra è inevitabile), una serie di considerazioni dei libri di storia su cui abbiamo studiato perde di importanza o di centralità, mentre altre prospettive assumono ben altre proporzioni.

Ad esempio, la carneficina sul fronte occidentale che dissanguò Francia e Germania (e un po’ meno l’Inghilterra) ha sempre dimensioni agghiaccianti (1, 4 mil di francesi, 0,8 di inglesi e 2 milioni di tedeschi) così come il fronte alpino dove morirono 1,5 milioni di soldati austriaci e italiani, ma accanto ecco che si scoprono i numeri enormi (e anonimi, perché nessun Remarque li ha mai raccontati) dei caduti Russi o di quelli Turchi: oltre due milioni di soldati russi (cancellati dalla Rivoluzione, in Russia avranno un monumento, il primo, solo quest’anno…) e quasi uno di turchi morirono su fronti dimenticati. A questi vanno aggiunti i numeri dei civili (la Grande Guerra fu la prima guerra totale, dove anche i civili subirono perdite enormi, non quanto nel secondo conflitto, ma lo stesso impressionanti) che sono spaventosi: oltre 2 milioni nell’Impero Ottomano e 1,5 per quello russo. Il totale delle vittime dei due imperi -che quasi nessuno ricorda coinvolti- (la Russia uscì di scena con la Rivoluzione e la pace di Brest-Litovsk, la Turchia è archiviata con Gallipoli e stop) è mostruoso: 6,5 milioni di morti.

Se poi si scorrono le percentuali dei caduti totali (militari e civili) sulla popolazione, accanto al 2,2% di Inghilterra e Russia, al 3% della Austria-Ungheria, al 3,5% di Italia e Bulgaria, al 3,8% della Germania e  al 4,3% della Francia (quasi il doppio degli inglesi) ecco che spicca il 9% della Romania (che pochi ricordano in guerra), il 13,2 dell’Impero Ottomano e l’agghiacciante 21,5% della piccola Serbia: praticamente un genocidio (quasi un milione di morti su quattro e mezzo).

Gli Stati Uniti invece sono fermi allo 0,13% con 117.000 morti: eppure saranno proprio loro a dettare le condizioni di pace a tutti, sbagliando praticamente ogni cosa e ponendo le basi per la seconda guerra: ma il Presidente Wilson è invece ricordato come il padre della Società delle Nazioni!

 

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Trincee sul Carso

 

“Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni”
(Ferdinand Foch, ufficiale francese, 1920)

 

Subito dopo la fine della guerra (1918-1920) arriverà anche la Spagnola, l’influenza pandemica che da sola uccise forse 50 milioni di persone nel mondo, di cui oltre 10 milioni di essere umani stremati e malnutriti nella sola Europa.

Si capisce bene come, con questi numeri, l’immagine dell’Europa nel 1920 assomigli più a un lazzareto o a un cimitero che non ai mitici “anni ruggenti” di charleston e art-decò.

Le campagne erano devastate dalla malattia; la stragrande maggioranza degli uomini adulti erano morti, feriti o rincoglioniti da 4-5 anni di guerra di trincea; profughi, sbandati, predoni erano ovunque.

Cessate le ostilità, le rivoluzioni socialiste provavano a esplodere un po’ dappertutto, sulla scia di quella russa, ma più che altro approfittando della crisi dei poteri democratici; con questo pretesto saranno invece i leader fascisti di mezza Europa a salire al potere, spesso col consenso e il plauso della popolazione… insomma le macerie della Grande Guerra sono state davvero ingombranti e le conseguenze di quel 28 luglio 1914 vanno ben oltre il 4 novembre 1918.

 

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Sacrario di Redipuglia, cimitero austro-ungarico

 

Tra le cose che sui libri di storia si tende ad omettere c’è misteriosamente anche la fine del conflitto, cioè le cause che portarono al crollo degli Imperi Centrali.

Gli storici francesi e inglesi si guardano bene dallo scrivere che in definitiva fu la battaglia di Vittorio Veneto a porre fine alla guerra, cioè fu il fronte italiano l’unico vittorioso, col crollo dell’Impero Austro-ungarico e le dichiarazioni di indipendenza dei mille popoli oppressi dagli austriaci e mandati a morire sul Carso, in Galizia e nei Carpazi per 5 anni. Questo fatto invece è dato per scontato dagli storici tedeschi e austriaci che attribuiscono al crollo dell’Austria-Ungheria anche la successiva rivoluzione tedesca. Proprio Hitler avrà buon gioco di parlare di “tradimento dell’esercito” e “pugnalata alle spalle” visto che la Germania non fu sconfitta sul campo ma firmò una resa incondizionata incalzata dai moti a Berlino: sarà proprio questo uno degli argomenti che più farà presa sui reduci e sugli strati più bassi della popolazione, durante la sua ascesa al potere.
Del resto anche il Fascismo parlerà di “vittoria mutilata”, in quanto la delegazione italiana abbandonò la Conferenza di Parigi per protesta contro la mancata concessione della Dalmazia (come era invece stato stabilito dal Patto di Londra) in una curiosa convergenza di delusione tra vinti e vincitori.

E così l’Italia aveva avuto 1.240.000 morti (tra militari e civili) solo per strappare all’Austria l’Alto Adige (il resto -ovvero Trento e Trieste- l’Austria lo aveva già offerto nel 1915 in cambio della neutralità italiana): una beffa tragica che più di ogni altra cosa forse riassume la follia di questa guerra.

 

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Brigata Regina annientata dai gas asfissianti

 

Quando passo in un paesino delle Langhe mi fermo sempre a leggere i nomi dei caduti della Grande Guerra, nell’immancabile lapide del Municipio: sono elenchi lunghissimi per paesi di poche anime (anche se più popolosi a quei tempi), elenchi doppi rispetto alla Seconda Guerra che pure non ha scherzato. Va ricordato che i soldati italiani della Grande Guerra provenivano al 70% dal Centro-Nord.

E me li immagino quei poveri contadini veneti, piemontesi e lombardi, arruolati e spediti su un fronte sconosciuto ad ammazzare identici contadini moravi, valacchi o croati.

Così come i country guys dei villaggi inglesi messi tutti insieme negli stessi battaglioni, nelle stesse compagnie, spesso azzerate in un assalto solo. E poveri mujik ucraini e montanari di baviera e pescatori del Baltico e sudditi del Sultano da mezzo deserto del mondo sparati contro le mitragliatrici, i carri armati, i mortai e i lanciafiamme: uno sforzo tecnico immane solo per macellarli meglio.

Ci sono i garçons francesi che vanno in taxi sulla Marna a fermare i boques prima di Parigi e i ragazzi del ‘99 che riempiono il Piave di sangue, i disertori fucilati alla schiena a migliaia da comandanti criminali (non se ne salva uno) e giovani americani e canadesi che davvero non capiscono perché debbano andare a morire per difendere terre da dove i loro nonni scapparono dalla disperazione.

Erano tutti contadini, erano tutti analfabeti, mai andati a 10 km da casa… buttati dentro a un tritacarne peggiore di qualunque incubo: le trincee, gli assalti alla baionetta, i gas, i bombardamenti, in un’unica infinita teoria di croci.

Sangue, merda e fango appunto.

Ma ogni croce aveva la sua storia, che spesso non venne raccontata a nessuno, perché i soldati erano appunto analfabeti, e non potevano quindi scrivere nemmeno una lettera a casa.

Quei poveri fanti non avevano nessun modo per raccontare davvero cos’hanno vissuto e soprattutto cos’hanno subito: la censura avrebbe comunque bloccato anche le testimonianze dei pochi che potevano scrivere e i cappellani militari riuscivano appena a raccogliere a voce, e poi mettere insieme, lettere spezzettate di mille dialetti di uomini distrutti che cercavano solo di rassicurare i propri cari a casa, dove un altro prete avrebbe letto ai genitori le parole di quel figlio lontano ma ancora vivo, senza pensare nemmeno di raccontare loro l’indicibile.

Cosa restava a quei ragazzi dunque per darsi coraggio, per farsi forza, per scaricare la rabbia e l’impotenza? Restava solo la musica.

Perché la musica non ha bisogno di alfabeto, è immediata, intuitiva, viene da dentro. E così quegli uomini nei momenti di pausa fecero delle canzoni, a volte grandi canzoni, che più di mille libri di storia ci dicono cos'è stata la Grande Guerra sul Grappa, sull'Isonzo, sul Carso, sul Piave e ancora sui Monti sCarpazi o in Grecia.

Queste canzoni spesso erano solo piccole storie ma avevano un’energia tale da tenere insieme quelle anime disperate.
Identiche storie, altrettanto mute, altrettanto semplici e vere si raccontavano sull'altro lato del fronte e su tutti gli altri fronti.
Poveri contadini slovacchi, cechi, ungheresi, croati e di mille altre regioni dell'Impero soffrivano e morivano inutilmente proprio come gli alpini italiani.

Il canzoniere della Prima Guerra Mondiale è un’opera di etnografia, di psicologia e di storia.
Ed è anonimo, così come i morti che finivano nelle fosse comuni quotidianamente.

È la più grande testimonianza della follia della guerra ed è forse solo attraverso quelle canzoni che possiamo davvero farci un’idea di quale immenso, infinito, folle funerale aprì il secolo breve quel 28 luglio 1914.

  • Massimo Bubola. Photo: .
  • Massimo Bubola 2. Photo: .
  • Il testamento del Capitano Cop. Photo: .

Che io sappia, un cantautore solo ha prestato attenzione a questo patrimonio incredibile: è italiano, di Verona e si chiama Massimo Bubola.

Il suo primo disco sull’argomento, “Quel lungo treno”, è uscito dieci anni fa e quest’anno, nel centenario, è uscito invece “Il testamento del Capitano”. Entrambi i lavori sono composti da canzoni tradizionali, arrangiamenti e canzoni nuove scritte da Bubola con la mano del grande autore, da poeta e storyteller di classe.

Queste canzoni raccontano la guerra degli italiani ma, proprio come per “Lily Marlene”, se si cambiassero le parole in un’altra lingua, ci parlerebbero degli austriaci e degli ungheresi

E assieme a loro di inglesi e tedeschi, russi e francesi… e polacchi, americani, bulgari, serbi e turchi.

Nessuno di loro poteva capire davvero perché fossero finiti lassù, nessuno di loro aveva parole per descrivere cosa succedeva al fronte, nessuno di loro aveva una voce.

Ecco, Massimo Bubola (proprio come la grande poetessa Anna Achmatova per i morti nei GuLag sovietici) ha ancora una volta dato una voce e una memoria a quelle croci, a quei poveri ragazzi macellati a milioni da generali criminali, alla “meglio gioventù che va sottoterra”.

Come ho già detto, Bubola aveva scritto un album interamente dedicato alla Grande Guerra, “Quel Lungo Treno”, già nel 2004, alternando brani tradizionali riarrangiati a pezzi inediti che però potrebbero essere stati scritti cent'anni fa.

E prima ancora c’era stato un pezzo-capolavoro come “Rosso su Verde” che oggi (sul nuovo lavoro “Il Testamento del Capitano”) è cantato dal Coro degli Alpini di Milano, in un'ideale chiusura del cerchio.

Massimo Bubola del resto è una vita che sforna grandi canzoni e gioiellini di album (su tutti “Doppio Lungo Addio”), seguendo un percorso personale che a volte sfiora quello di mostri sacri e celebrati della canzone italiana, altre volte invece vira in solitari progetti altrettanto notevoli, come questo sulla Grande Guerra o l’incantevole “Neve sugli Aranci” scritto e suonato con un altro genio incontenibile che è il violinista Michele Gazich.

Se un lavoro del genere lo avessero fatto negli Stati Uniti, i nostri pseudo-critici musicali si starebbero spellando le mani, straparlando di grandezza delle roots americane e di forte identità culturale che dagli Smithsonian in giù solo oltreoceano sanno valorizzare etc etc.

Invece se lo fa un grande autore italiano viene accolto a volte (dico a volte, perché poi persone intelligenti e sensibili ce ne sono anche in Italia) con sorrisetti di sufficienza e complessi di inferiorità culturale, quando non con un “che palle, ancora con la prima guerra mondiale” sottointeso, mentre gli stessi critici poi si pisciano addosso per analfabeti che rappano anacoluti, gente senza cultura né tecnica che parla di minchiate come fossero tragedie.

La Grande Guerra è stata una tragedia vera e giustamente -come scriveva il mai abbastanza rimpianto Iosif Brodskij- in una tragedia non muore l'Eroe, muore il Coro.