Tu sei qui

anViagi 145La Storia

A Tanaro, un pomeriggio di maggio

Pietro Giovannini13 giugno 2014

Lettera d’amore per una città incapace di volersi bene. ***

È primavera inoltrata, il fiume scorre placido ma ancora gonfio di pioggia e disgelo, la città gli dorme accanto in un tardo pomeriggio domenicale dove il brusio delle auto è quasi inesistente e gli stridii degli uccelli echeggiano distinti in cielo.

Il cielo è blu, con graziose nuvole di panna all'orizzonte che tra poco si tingeranno di viola e rosa. Il sole taglia le colline con una luce brillante che si riflette sulle foglie degli alberi lì attorno e sui filari pettinati alle spalle del fiume e della città.

Asti si culla nella brezza che porta una leggera umidità tra i vicoli del centro medioevale; lontano, sull'altra riva del fiume, si distingue la sagoma di un pescatore immobile all'ombra di un salice, che probabilmente è lì più per sfuggire a una moglie petulante e noiosa che non per reali velleità ittiche.

È una domenica come tante dell'anno 1957: potrebbe essere uscita dritta da una canzone di Paolo Conte, se solo l'avvocato avesse già iniziato a scrivere canzoni invece di cazzeggiare in gruppi jazz per far colpo sulle ragazze.

All'ombra di querce e pioppi, lì in riva al fiume, una vecchia Fiat smette finalmente di cigolare dondolando sulle balestre esauste, quando un'esclamazione poco ortodossa e molto liberatoria ne decreta il silenzio: "Sì, Cristo, siiì!"

Dalla portiera posteriore il groviglio di gambe resta immobile, ancora in tensione, sospeso per un infinito e brevissimo lasso di tempo; poi i nervi si sciolgono, le scarpe col tacco nero scivolano in basso e una sagoma scura si rialza nell'inconfondibile atto di tirarsi su le bretelle.

Intorno non è cambiato nulla: gli uccelli continuano a incrociare sopra al fiume, la brezza muove i panni stesi di corso Savona, una mamma chiama -da chissà dove?- il figlio a casa, il pescatore sembra dormire sotto al suo salice.

L'uomo si è allontanato di pochi passi appena e ora dà le spalle all'auto; guarda la città, le sue torri e i suoi tetti rossi, e intanto si è messo a pisciare sulla riva del fiume. Ha spalle curve e stanche, un tempo certo più spavalde, e porta una camicia grigia con la classica canottiera bianca sotto la Y delle bretelle nere. I calzoni hanno un colore indefinibile, sdruciti e consumati così come pure le scarpe. Fruga nella tasca sinistra con la mano libera per trovare un pacchetto di nazionali Super rosso (sulle sigarette non ha mai lesinato) e se ne accende una grattando il minerva sulla suola stanca delle proprie scarpe rotte, dimostrando così una certa agilità circense.

Si chiama Mario, ha 37 anni e un grandioso avvenire alle spalle.

Come tutti è stato fascista da giovane ma ad appena 20 anni l'entusiasmo marziale gli si era già affievolito con la chiamata negli effettivi del Regio Esercito e l'invio sul fronte greco. Lì, dopo appena due settimane, un colpo di mortaio lo aveva lasciato per morto, regalandogli un congedo anticipato e un orecchio sordo come una campana.

Prima della guerra Mario aveva un sacco di idee, pensava di fare fortuna in Abissinia o a Tripoli, in quell’Impero esotico e sconosciuto che sembrava il nostro far-west… era un bel ragazzo allegro e sportivo con una lunga teoria di ragazze che se lo mangiavano con gli occhi: sempre stato ignorante, lui con la sua canottiera dei ginnasti astigiani, le sue piroette mentre si tuffa in Tanaro, la sua camicia bianca e la brillantina con cui ciondola fuori dai bar tra un biliardo e una spuma gelata, sempre con quel sorriso indolente e disarmante stampato in faccia.

A 17 anni aveva iniziato a lavorare da magazziniere per una ditta di trasporti, ma aveva litigato col capoturno a cui i suoi modi da dandy e la sua aria saputa piacevano poco: era finita a pugni e malgrado l'altro avesse iniziato per primo, lui era stato ovviamente licenziato, lasciando comunque un bell'occhio nero al posto della lettera di dimissioni.

Le cose iniziarono a girargli male, finì un paio di volte al fresco mentre i suoi sogni di gloria si allontanavano e la cittadina provinciale (la nuova provincia del vino, la provincia del Grappolo!) gli si chiudeva attorno. Passava da un lavoro saltuario all'altro, in attesa del colpo di fortuna che certamente lo avrebbe sistemato.

Il 10 giugno del 1940 un colpo arrivò davvero ma fu l'entrata in guerra contro la Francia.
L'esercito gli stava anche bene, quelli come lui si trovavano bene nell'esercito, erano "svici" e prepotenti il giusto e forse avrebbe fatto carriera (magari in un'altra guerra o in un altro esercito) ma il mortaio chiuse il discorso.
Tornò a casa mezzo rincoglionito, sei mesi di ospedale militare lo avevano ridotto nel fisico e nei riflessi, ma per un po' conobbe la gloria locale: la gente lo fermava per strada, lo invitava al caffè e lo guardava con compunta ammirazione. I giornali gli dedicarono anche un paio di articoli, perché il Mario era un eroe di guerra, un giovane che si era immolato per la grandezza dell'Impero etc etc.

Poi però molti altri tornarono feriti o direttamente sotto una bandiera tricolore e il Mario pian piano non lo considerò più nessuno.
Anzi nel '43 mentre se ne stava seduto per terra davanti a una latteria subito dopo un allarme anti-aereo, una donna gli rinfacciò che a lui sì che era andata bene mentre suo figlio era disperso in Russia e che almeno la aiutasse a spaccare la legna invece di ciondolare come un balacanta tutto il giorno. Lui la guardò, le sorrise placido e non si mosse di un millimetro.

Intanto i fascisti di Asti lo prendevano per il culo perché non sentiva bene, i tedeschi lo guardavano male (il solito italiano imboscato...) mentre per i partigiani lui era il perfetto esempio di come Mussolini avesse rovinato il paese.
A guerra finita era già considerato un vecchio arnese, un reduce di un passato da dimenticare, uno scemo di guerra.

E dire che aveva appena 25 anni!

Nell’euforia del dopoguerra si buttò nel commercio: distribuiva detersivi e altre novità americane per una ditta di Alessandria, poi si mise a lavorare per un cioccolataio di Alba, Pietro Ferrero, che lo licenziò dopo pochi mesi perché si era portato a casa un po' di crema al cioccolato. Allora aprì una rivendita di vino -Barbera, Grignolino, Freisa- ma fallì in meno di tre anni.
E così a 35 anni era già Mario il ciòrnio, considerato da tutti un buono a nulla, un fallito, chiamato solo per lavoretti saltuari sottopagati. Sua madre era morta e lui viveva nelle due stanze che gli aveva lasciato, guidando la vecchia Fiat per lavori a cottimo in tutta la provincia.
Non aveva perso il buonumore ma sembrava a volte che fosse quasi una posa per non sembrare ancora più triste.
Quando gli faceva comodo si fingeva sordo anche dall’altro orecchio, così lasciava cadere cattiverie e provocazioni, anche se ogni tanto una bella scazzottata non se la negava e non era mai il solo a portarle a casa. Come diceva sempre: "Se parti per dare un sacco di botte, portati due sacchi!"

Intorno a lui, nell'anno 1957, il boom economico stava per esplodere ma di certo -e non solo a causa della ferita di guerra- lui non lo avrebbe più sentito.

 

Le spalle curve si drizzano improvvisamente per osservare il volo di uno stormo che da San Marzanotto punta al campanile di San Secondo. La sigaretta aspirata con forza gli lascia una scarica di energia che si diffonde piacevolmente sui muscoli scarichi. La brezza gli passa tra i capelli rinfrescandogli la schiena sudata. Il ricordo del mortaio si allontana mentre Mario si gode ancora una volta la primavera, il fiume e una donna. “Oggi potrebbe andarmi peggio” pensa.

 

La donna si chiama Marisa e fa la sarta. È più vecchia di lui di qualche anno ma è ancora in forma, forse più di lui.
Arriva da Torino, dove si è lasciata alle spalle una vita di fame, umiliazioni e fallimenti. Dopo la liberazione un partigiano la mise incinta, ma poi non ne volle sapere, dicendo che lei aveva fatto la picia con tutti su in Val Sangone e di chissà chi era 'sta masnà… Il che non era vero ovviamente, anche se certo non era uno stinco di santo nemmeno lei…
Del resto provatevi voi a trovarvi da sola sotto i bombardamenti a 22 anni, con la paura quotidiana di bruciare in una cantina per due anni filati e d’improvviso avere intorno tutti quei ragazzi coraggiosi che bestemmiavano il Duce e sembravano veri uomini anche se avevano appena 18 anni… 

Alla fine lui le aveva dato una bottiglia di grappa e due catenine d'oro (lei non gli chiese mai da dove provenissero, ma le sembrò arrivassero dritte dall'inferno) dicendole di arrangiarsi, e se ne era andato immediatamente. Non lo vide mai più, non ricordava nemmeno più il suo nome.

Il resto invece lo ricordava benissimo anche dopo vent'anni: Marisa riportò le catenine in un altro inferno, un tugurio sporco dove venne quasi macellata con un ferro da calza. L'aborto clandestino la lasciò sterile e marchiata di infamia a vita.

Era sola, disperata e povera: una strada segnata, tra gran balon, battilastra e malavita torinese.

Un giorno tentò il suicidio, buttandosi da un secondo piano sul Lungo Dora ma si ruppe solo una gamba, restando così per sempre un po' zoppa. Un prete la incontrò in ospedale e scrisse la classica lettera sulla pecorella smarrita alla parrocchia di Sessant, da dove il sacerdote proveniva.
A Sessant le diedero alloggio per un anno e le cercarono un po' di lavoro da sarta. Così ormai da cinque anni si ritrovava ad Asti, meglio di come era messa a Torino, ma sempre con un bel po' di voci che le leggevano la vita dietro.

Marisa la sòpa non poteva che fare coppia con Mario il ciòrnio.

Che poi nemmeno coppia facevano: Mario voleva starsene da solo con i suoi incubi e i suoi rimpianti e lei del resto cosa poteva offrirgli? Manco poteva più fare dei figli.

 

Marisa è ancora in macchina che si rimette a posto il reggiseno, lisciandosi la gonna dalle mille pieghe sul davanti dove Mario l'ha ammucchiata, senza manco sfilarle le mutadine. Poi scende incerta sui tacchi tra i ciottoli della riva, tira su le braccia e si raccoglie i capelli per legarli con una matita. Mario sta ancora fumando.

Lei lo guarda da dietro: un uomo stanco a cui la vita beffarda ha cambiato le carte troppe volte. Marisa sente l'aria della primavera, gli uccelli che gridano: 20 anni prima in riva al Sangone, la stessa aria, gli stessi uccelli ma certo l'uomo sbagliato.

È stanca Marisa, è sola e non si fa più nessuna illusione. Ma lo stesso il suo cuore si scalda.

E se Mario fosse l'uomo giusto? Anche solo per farsi compagnia in questi anni pieni solo della felicità altrui, in cui tutti stanno bene e credono nel futuro e invece loro stanno a Tanaro a contemplare le macerie di due vite sbagliate.

Ecco che Marisa si toglie la matita di bocca, tenendo fermi i capelli con la sinistra; poi si ferma, le mani in alto dietro la nuca, e urlando leggermente esclama "Ti Mario! E sa 's marieiso ti e mi?" (Di' Mario! E se ci sposassimo tu ed io?).

 

Mario continua a fumare, ora gli uccelli han cambiato direzione e stan tornando al fiume. Potrebbe far finta di niente, la sordità ha questo indiscusso vantaggio; potrebbe finire la sigaretta, girarsi come se niente fosse e portarla a casa: lei non tornerebbe mai più sull'argomento e lui nemmeno.

Oppure potrebbe girarsi, abbracciarla e dirle che "Sì 'a podima propri mariese" (Sì, possiamo proprio sposarci).

Ma a cosa servirebbe?

Due falliti non ne faranno mai uno normale. La loro vita sarebbe solo una comunione di cattivi umori di giorno e di cattivi odori di notte, come avrebbe detto Flaubert (se solo Mario avesse mai letto Flaubert).

Anni fa gli sarebbe piaciuto sposarsi questo sì, più che altro per avere dei figli di cui andare fiero, a cui insegnare quello che la vita gli aveva mostrato; qualcuno per cui darsi un senso, quando ancora vagheggiava dell'Africa, là dove lui avrebbe fatto fortuna e certo si sarebbe sposato la figlia di un generale che sapeva di sapone e lenzuola pulite.

Ma non era andata così: i generali erano una massa di figli di puttana, le loro figlie troie come poche e comunque l'Impero non c’era più e lui era un fallito, sordo e inutile che si scopava una ex-prostituta a Tanaro, giusto perché entrambi non si sentissero troppo soli.

Ma a Marisa alla fine le voleva bene, un'altra povera creatura a cui la vita aveva dato troppo poco e tolto sempre troppo.

Però sapeva che non avrebbe mai funzionato lo stesso.

Così Mario soffia fuori l'ultimo fumo, butta la sigaretta in Tanaro, schizzandola tra indice e pollice; poi lentamente si gira, chiudendo un poco gli occhi per il sole tra gli alberi, e le risponde con un sorriso, lo stesso sorriso che mostrava alle ragazze prima di tuffarsi nel fiume, lo stesso sorriso disarmante che aveva dato in risposta alla donna invece di andare a spaccare la legna per lei, lo stesso sorriso enigmatico che aveva lasciato di mancia al giudice mentre quello lo dichiarava fallito.

Mario guarda Marisa che è lì a tre metri, ferma immobile, con ancora le braccia sollevate tra i capelli della nuca, in attesa. Le vede il petto gonfio che trattiene il respiro, gli occhi impassibili e assenti, le gambe nude, il volto acceso, la sua semplice umana solitudine.

"Ma chi 't voeli ch'ij pija a doi come noiach?" (Ma chi vuoi che li prenda due come noi?)

Marisa sorride di traverso, finisce di legarsi il pocio, “Tei propi rason, Mario” (Hai proprio ragione, Mario)

Poi lo bacia su una guancia e senza neanche una lacrima sale in macchina.

 

 

In memoria del mio amico Angelo Ladame, delle sue sigarette, dei suoi sogni e delle sue barzellette.

 

*** Scritto venerdì 13 giugno 2014 all’ombra nel giardino di Casa Nicolini a Barbaresco, mangiando un’insalata mista e bevendo acqua.