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anViagi L’Editoriale

Sogni di Jugoslavia

Pietro Giovannini28 aprile 2014

Gli Jugoslavi mi hanno sempre ricordato gli italiani degli anni '50.

Io non credo molto alle differenze tra Sloveni, Croati, Serbi, Macedoni, Bosniaci etc… certo gli Sloveni sono Friulani e i Macedoni sono Abruzzesi ma in realtà mica troppo lontani.
Avete presente le foto in bianco nero di gente felice in canottiera, seduta a tavola che fuma, sorride all'obbiettivo e se ne frega di come è vestita?
Ecco la Jugoslavia, a volte, io me la ricordo così.

Entrare in un bar nella collina di Fruska Gora e sentirsi ad Albaretto Torre da bambino: penombra, vecchi col cappello, col mozzicone perenne e una bibita sconosciuta davanti, ambiente fresco con un po' odore di chiuso e molto di fumo, mazzi di carte, una donna di mezza età che mastica un buongiorno in serbo non troppo lontano da un "arvedze" langhetto, una bambina che fa capolino da dietro il bancone con una bambola in braccio e una stanza tuttofare alle spalle…cose così.

Le facce poi sono imperdibili: scavate, piene di rughe, con occhi bianchi enormi e punte di spillo al posto delle pupille curiose, mobili, velocissime. Mani che hanno lavorato la terra, spalle e fianchi storti dalla fatica della zappa, il rispetto per vino e grappa (qui distillata di frutta invece che di vinacce), cibo contadino con tanta carne arrostita e peperoni e melanzane e zuppe fumanti ma anche pasta, proprio come in Italia.

Un paese parallelo all'Italia che il comunismo di Tito aveva surgelato tra scarpe e vestiti tutti uguali, auto Zastava e falansteri sovietici che rendevano le periferie dell'Est Europa tutte tristi e grigie (e molto simili a quelle di Venaria e Sesto San Giovanni).
Ma dove, proprio come a Milano, si leggevano Alan Ford (e la microsatira di Magnus&Bunker sulla società funzionava benissimo anche di là dall'Adriatico) e Tex Willer (sognando una frontiera eroica e remota esattamente come da noi); dove Fantozzi e le commedie all'italiana erano popolarissime e tutti guardavano e sognavano il campionato italiano di calcio.
L'Italia era la loro California, un sogno da cullare la sera guardando il mare oltre le montagne del Montenegro.

L'Italia: l'eterno cugino/vicino millenario, malgrado la violenza del fascismo, la guerra mondiale, un'occupazione -migliore di quella tedesca certo- ma sempre un'occupazione, la resa dei conti del 1945, con le foibe e la pulizia etnica titina, gli accordi di Osimo e la fatica di una pacificazione tra Nato e Patto di Varsavia, figlia di una neutralità che solo Tito seppe trovare.

Poi tornò la guerra del 1991, una guerra a cui l'Italia assistette impassibile e distratta, consolandosi davanti all tv (fu la prima guerra in diretta) a rinvangare vecchi luoghi comuni sugli odi mai sopiti tra ortodossi, cattolici e musulmani; era un'Italia con una classe politica esausta, ormai tutta tesa ad affondare nella corruzione e nella giustizia forcaiola di Mani Pulite.
Io mi ricordo forse meglio la diretta dei funerali di Tito nel 1980, con la bara caricata sul treno presidenziale che da Lubiana, dove era morto, transitava a Zagabria e quindi a Belgrado in un mare di folla piangente (un rituale classico del comunismo, così bravo a organizzare le masse).
A ripensarci, quel treno e quel funerale rappresentavano benissimo anche la fine del comunismo (ci avrebbe messo ancora un decennio a crollare ma i prodromi c'erano tutti).

Ma quel treno avrebbe portato metaforicamente via anche la nostra classe politica democristiana e socialista che aveva ormai nell'anticomunismo la sua sola ragion d'essere.
E del resto, finito il muro, crollata l'URSS, smantellata la Cortina di Ferro, perché gli italiani avrebbero dovuto ancora votare i corrotti notabili della Balena Bianca?
Intanto con un trasformismo furbo e opportunista il PCI cambiò nome, cercando di sverniciare un po' di rosso per aggiungere il verde di una quercia rassicurante e vincere così finalmente le elezioni, attirando per la prima volta un po' di voti moderati.
Si dimenticò però di cambiare volti e questo è uno sbaglio che ha pagato fino a ieri.
E invece un piazzista palazzinaro era pronto a regalare un nuovo sogno di plastica agli italiani, lo stesso sogno che le democrazie europee si apprestavano ad esportare oltre l'Oder-Neisse: consumismo, villaggi-vacanze, pubblicità, supermercati, televisioni.

L'estetica che invece di preludere ad una nuova etica, semplicemente la aboliva.

La Jugoslavia intanto rispolverava la pulizia etnica, i lager, gli stupri di guerra e tutta la ferocia di una guerra civile in cui non c'era un solo colpevole ma tutti erano al tempo stesso agnelli e lupi, carnefici e vittime.
Alle loro spalle, Francia e Germania armavano i contendenti mentre gli americani si apprestavano a bombardare i "cattivi" cioè i serbi (per tutta la stampa internazionale) con il placet di un premier non eletto come D'Alema, ansioso di accreditarsi come partner affidabile a Washington (digerendo la funivia del Cermis e i bombardamenti intelligenti su ponti e città della Vojvodina che niente avevano a che fare con il Kosovo).
Sempre D'Alema sarà in prima fila nel riconoscere il Kosovo nel 2006, il più grande sbaglio politico dell'Unione Europea, e in sintesi una porcata di diritto internazionale che oggi torna come un boomerang con la crisi in Crimea e che in futuro aprirà mille altri contenziosi.
Anche solo per questo D'Alema dovrebbe darsi al giardinaggio e smetterla di trombonare in politica.

L'Italia, lo Stato che aveva raccolto i resti dell'esercito serbo nella prima guerra mondiale (cosa questa che a Belgrado ancora ricordano), e che per ragioni storiche e geografiche conosceva molto bene le tensioni tra slavi e albanesi, avrebbe potuto (e dovuto) essere il vero mediatore tra Serbi, Croati, Bosniaci e Kosovari.

Invece preferiva restare alla finestra, lasciando che da Aviano gli americani in technicolor bombardassero le nostre vecchie foto in bianco e nero.

Ma perchè scrivo di Jugoslavia e di Slavi del Sud (è questo il significato della parola, in quanto contrapposti nell'Impero Austro-Ungarico a quelli del Nord, i cechi e gli slovacchi) oggi?
Sono pensieri che mi girano in testa da un po', ma ieri quando ho saputo che il buon Boskov se ne era andato mi sono tornati tutti insieme come in una giostra colorata di zingari (quella della foto stupenda di Monika Bulaj che usai per una copertina di anViagi), come in un film di Kusturica ("Undeground" racconta la Jugoslavia, ma "Gatto Nero Gatto Bianco" racconta gli Jugoslavi), come in un concerto della Koceani Orkestar o in una cartolina multicolore delle case antiche di Dubrovnik.

Per me che sono (tiepidamente) genoano, Boskov poteva essere un nonno da mandare anche a fanculo ogni tanto (mio cane gioca meglio di Perdomo) ma che poi vorresti incontrare ogni giorno nella penombra di un bar di Fruska Gora, tra una spuma e un mazzo di carte, a guardare in tv la finale di Coppa Campioni dove chissà…magari stavolta le "rumente" vincono loro!