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anViagi 157La Storia

I Bolscevichi tornano al Palazzo d'Inverno

Pietro Giovannini27 novembre 2017

I Bolscevichi tornano al Palazzo d’Inverno.
E lo fanno con una mostra straordinaria che l’Ermitage ha inaugurato nel Centenario della Rivoluzione di Ottobre.

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: la mostra non ha alcuna velleità celebrativa, né tantomeno etica.
Si tratta piuttosto di una ricostruzione fedele e innovativa di cosa successe davvero tra il 1914 e il 1917, filtrata attraverso le lenti della Storia (e dei documenti di cui essa si nutre).

Non a caso il sottotitolo della mostra vuole essere più un chiarimento che uno slogan, anche se indubbiamente efficace: “History was made Here” ovvero “Qui si fece la Storia”.
E se nel porre l’accento sulla Storia già si capisce l’impostazione rigorosa data dal Museo, in quel “Here” c’è proprio l’idea stessa della mostra.

Perché quello che oggi è forse il più bel Museo d’Europa (senz’altro il più ricco, il più grande e il più visitato) è stato il teatro stesso della Rivoluzione (e degli anni che la precedettero) nei suoi momenti più drammatici.
Da qui l’idea di riportare i Bolscevichi (ma pure la Corte di Nicola II come il governo menscevico di Kerenskij) nelle stesse sale dove cent’anni fa “fecero la Storia” della Russia, imprimendo un’accelerazione a tutto il secolo e trasformando irrimediabilmente questo paese.
Si può essere ferocemente anticomunisti come nostalgici di Lenin o magari di Trotskij (ma qui ci sono molte persone che han fior di rimpianti pure per Stalin), ma non si può negare che alle due di notte di quel 26 ottobre 1917 (secondo il calendario giuliano dell'epoca) la Russia cambiò per sempre.

E così oggi il direttore Mikhail Piotrovskij, con i curatori Vjacheslav Fjodorov e Jelena Solomakha, attraverso gli immaginifici allestimenti dell’olandese Bureau Caspar Conijn, hanno scelto di riportarci indietro di cent’anni trasformando il Museo stesso in una macchina del tempo che nelle stesse sale di allora, totalmente riallestite, ci permette praticamente di camminare dentro la Storia.

Ecco la Corte coi suoi balli in maschera, gli abiti della Zarina e quelli (per altro molto sobri) delle quattro Principesse (che qui praticamente nessuno ha mai smesso di piangere: l’uccisione della famiglia che manco poteva salire al trono e cioè la parte femminile è considerato un crimine inutile anche da parte dei più nostalgici), i giocattoli del piccolo Alekseij (l’emofiliaco Zarevich su cui tanto si è scritto), le immagini di una Corte che viveva totalmente scollegata dal mondo di fuori.

Poi la guerra, la stampa che attacca il Kaiser (che era cugino di Nicola II), le caricature, il cambio del nome alla Capitale, da San Pietroburgo a Pietrogrado.
Ed ancora l’Ermitage come Ospedale da Campo (per soldati non per ufficiali) con mille letti che ci danno l’idea delle dimensioni faraoniche del Palazzo, le principesse Olga e Tatiana con la madre a fare da Crocerossine, lo Zar al fronte col figlio di appena 13 anni. 

Poi il pezzo più simbolico di tutto l’allestimento: un ritratto a grandezza naturale dello Zar (o forse pure più grande: Nicola era piccolo, 1,70 cm) ritrovato e restaurato dopo essere stato completamente coperto di vernice nera, sul cui retro (che quindi per cent’anni è stato il fronte) venne dipinto un Lenin in abiti civili con immancabile coppola, sullo sfondo della fortezza.
Anche Lenin era piccolo (1,65 cm), qui perfino più minuto del suo alter ego pittorico.
Il pittore sarà stato un Bianco, controrivoluzionario e beffardo?

Questo quadro double-face segna il momento in cui gli avvenimenti precipitano: lo scoppio della Rivoluzione di Febbraio con l’assalto al Palazzo, l’ammutinamento delle guarnigioni, i saccheggi e i vandalismi. E anche la mostra fisicamente accelera fino alla drammatica corsa finale.

Va ricordato ai più distratti che le rivoluzioni furono due: la prima detta “di Febbraio” (ma avvenne a Marzo sul nostro calendario) fu anche la più violenta e portò all’abdicazione di Nicola a Pskov, mentre cercava di rientrare dal fronte, e al governo provvisorio di L’vov prima e del menscevico Kerenskij poi. La seconda, la più famosa, che avvenne appunto a Novembre (ma Ottobre per i russi) con la presa del potere dei bolscevichi di Lenin e l’arresto del governo menscevico.

E quindi nelle sale ora vediamo lo smantellamento delle collezioni, inviate a Mosca in casse di legno, con le sole cornici lasciate appese ai muri come orbite vuote di un mondo che è già finito per sempre ma ancora non se ne rende conto, esemplificato benissimo dal quadro di Alessandro II (il nonno di Nicola, assassinato da una bomba a Pietroburgo nel 1881) trafitto da fucilate e colpi di baionetta al volto. Alessandro, malgrado avesse abolito la servitù della gleba nel 1861 e tentato diverse altre riforme, era odiatissimo e i Rivoluzionari del 1917 non erano altro che gli eredi di quelli giustiziati 36 anni prima come regicidi.

Poi sfila il governo Kerenskij, un “tentenna” che annaspa in una guerra disastrosa e perduta (vi moriranno inutilmente due milioni di poveri soldati, poi abbandonati e dimenticati per cent’anni), osteggiato dalle altre potenze europee “alleate” e dall’ala massimalista interna: il governo provvisorio si riunisce qui nella stessa sala che vediamo oggi, dove ancora una volta gli eventi precipitano.
Kerenskij avrebbe dovuto/potuto far arrestare Lenin? Chissà?
Ma la Storia non si fa con i “se”.
Ed è Lenin che invece passa all’azione.

Nell’agiografia sovietica fu tutto grandioso ed eroico (in una sala c’è Eisenshtein, durante le riprese del propagandistico “Oktjabr”, seduto buffamente sul trono che fu di Pietro Il grande, in una posa che ricorda Chaplin ne “Il Grande Dittatore”), nella realtà fu tutto molto semplice e pochissimo pericoloso.

La notte del 7 novembre i Bolscevichi scelgono infatti la via del Colpo di Stato e l’Aurora spara le famose cannonate (a salve): è il segnale dell’assalto al palazzo dove per altro non viene fatta nessuna resistenza.
Kerenskij riesce a fuggire mentre già le guardie rosse percorrono di corsa i corridoi dell’Ermitage.
Oggi quello stesso percorso è coperto di bandiere rosse con gli slogan della Rivoluzione, una parata che sembra quasi ricostruire visivamente la corsa dei Bolscevichi verso il Potere.
I ministri si rifugiano in una stanza attigua al Gabinetto di Governo dove vengono tutti arrestati: sono le 2.10 dell'8 novembre (ancora il 26 ottobre per il calendario russo), l’orologio sopra il camino si ferma a quell’ora.
Nessuno più lo farà ripartire.

La Rivoluzione ha fermato il tempo.

È l'8 novembre dell’anno 2017 e sono passati cent’anni da quel giorno: per l’inaugurazione della Mostra, le lancette tornano di nuovo a muoversi.
L'Ermitage sceglie così un modo molto discreto ma molto simbolico per compiere l’unica azione politica (ed etica) di questa mostra.

La Storia si è ripresa in un amen il tempo perduto e la Russia moderna è uscita davvero dal suo passato: senza dimenticare, né rimpiangere, né rinnegare nulla.
E forse finalmente guardare al futuro.

 

"Sì, c'è stato un evento, la rivoluzione. Ma è finito. Non abbiamo bisogno di cadere un'altra volta in nuove spirali rivoluzionarie perché la storia che si ripete in spirali è una farsa. Abbiamo seppellito la rivoluzione. Bisogna sempre seppellirla con attenzione perché non possa più venire fuori"
Mikhail Piotrovskij, Direttore dell’Ermitage.