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anViagi L’Editoriale

Schizzi di Komarovo – Addio a Evgenij Pasternak

Pietro Giovannini2 agosto 2012

L'arte non è pensabile senza rischio e sacrificio spirituale di sé.

 

Si è spento a Mosca a 89 anni il figlio maggiore di Boris Leonidovich Pasternak, Evgenij.
Era la memoria vivente del padre e verrà seppellito nella stessa Peredelkino dove riposa uno dei più straordinari poeti russi del ‘900.

Pasternak, che tutti conoscono in Europa per quell’unico romanzo, era stato infatti innanzitutto un poeta, anzi come dicevano all’epoca –un poeta maggiore–, confratello di Achmatova e Mandel’stam sul piano umano ma lontano dall’Acmeismo sul piano poetico; d’altra parte, proprio come per Marina Cvetaeva, è difficile (oltre che inutile) cercare di inquadrarlo in un movimento preciso.
La vedova Mandel’stam diceva che Pasternak, in questa prospettiva, era l’antitesi del marito.
Anna Achmatova, che restò sua amica tutta la vita e che da lui ricevette sempre aiuto durante i lunghi anni all’indice, gli dedicò alcune delle sue migliori poesie. Scrisse poi una sorta di epilogo, “Schizzi di Komarovo”,  in cui immaginava di riunirsi agli altri tre grandi poeti della sua epoca (Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e Marina Cvetaeva) in una sorta di giardino del Cielo.
È una poesia meravigliosa.

“Ed io sono qui staccata da tutto
da ogni bene terreno.
Spirito custode di “codesto luogo
è diventato un ceppo silvestre.
Siamo tutti un poco ospiti della vita,
vivere è solo un’abitudine.
Lungo le vie del cielo mi sembra di ascoltare
il richiamo di due voci.
Due? Ma verso il muro di levante,
fra le macchie tenaci di lampone,
c’è un ramo fresco e scuro di sambuco…
È una lettera di Marina.”

Evgenij tutte queste cose le conosceva bene, così come ricordava senz’altro le visite dell’Achmatova a Peredelkino o lo sguardo fermo sull'Epoca e i Lupi nelle straordinarie memorie dell’accattona Nadezhda Mandel’stam.
Ma più di tutto si ricordava di suo padre, che in quella dacia fuori Mosca si spense lentamente, di una malattia molto diffusa a quel tempo: il terrore.
Sua madre invece era sicura di aver trovato l’antidoto, facendogli ripetere ogni mattina prima di andare a scuola: “Io voglio bene innanzitutto al compagno Stalin e poi a mio padre e mia madre” convinta così di poter esorcizzare quel moloch che ogni giorno arrestava qualcuno dei loro amici.

Un giorno del 1934 vennero a prendere l’uomo più buono e inoffensivo del mondo, il poeta ebreo Osip Mandel’stam: aveva scritto una poesia implacabile su Stalin… rassegnato, il Poeta seguì gli agenti con un uovo sodo in tasca e la Divina Commedia sotto braccio.
Pasternak scrisse allora una supplica a Stalin in persona: era un gesto pericolosissimo, che però produsse conseguenze del tutto inattese, che segnarono le vite dei due poeti.
Pochi giorni dopo infatti (mentre Mandel’stam era ancora alla Lubianka) il telefono di casa Pasternak suonò: era Stalin. Pasternak prima pensò a uno scherzo e poi rimase paralizzato dal terrore.
Questi erano i tempi, questo era il potere di quell’uomo.
Stalin gli chiese con sottile perfidia se Mandel’stam fosse un suo amico; l’altro, non sapendo cosa rispondere (non ricorda forse gli apostoli dopo la crocefissione di Gesù?), cercò di spostare il discorso sul valore poetico dell’uomo, ma Stalin gli rispose: “Noi bolscevichi non rinneghiamo i nostri amici… se Mandel’stam fosse un mio amico, lo avrei difeso meglio”, però poi gli chiese con improvvisa curiosità: “Ma lui è davvero un maestro?”, a cui senza esitazione Pasternak rispose: “Sì, sicuramente: è un maestro”, poi cercò di parlare di sé “Ma perché parlare sempre di Mandel’stam, io vorrei incontrarmi con lei, sì con lei, per parlare della vita e della morte…”  ma Stalin chiuse la telefonata.
Incredibilmente Mandel’stam venne rilasciato (sul dossier c’era scritto a mano da Stalin: “isolare ma conservare in vita” …comunque 4 anni dopo venne inghiottito dal GuLag lo stesso) ma Pasternak non si riprese più da quella telefonata, e ne rimase ossessionato tutta la vita. In molti sono convinti che solo il comportamento coraggioso di Pasternak abbia regalato a Mandel’stam quei quattro anni in più, e a noi alcune delle più belle poesie del secolo.

Nell’anno del Nobel, il 1958, Stalin era (per fortuna) già morto da cinque anni, ma il sistema repressivo sovietico funzionava a pieno regime lo stesso, malgrado le recenti denunce di Kruschev.
E così Pasternak, che aveva già scritto un incredulo telegramma di ringraziamento, pochi giorni dopo fu gentilmente convinto a cambiare idea e a rifiutare quel Premio –imperialista e capitalista– dell’Accademia svedese, giustificando il suo rifiuto con l’aperta ostilità verso il suo Paese. Era stato minacciato di esilio, e morirà da appestato, nel giro di due anni, in totale povertà e nel silenzio sovietico.
Nella notte infinita degli anni ‘30 una volta aveva confidato ad Achamtova che voleva scrivere un romanzo “su tutti noi”; lei, che gli voleva bene, lo sconsigliò dal farlo, ma lui andò avanti e alla fine terminò il Dottor Zhivago nel dopoguerra; il romanzo fu subito rifiutato dall’Unione degli Scrittori, e quindi mai pubblicato. Apparve però come samizdat (cioè come scritto clandestino) ed in questa forma uscì dalla Russia per venire pubblicato proprio in Italia da Feltrinelli, che è anche una cosa di cui questo nostro paese dovrebbe andare fiero. Ebbe un successo immediato e fu quindi tradotto in tutte le lingue.
Una versione russa fu stampata dalla CIA proprio perché il romanzo potesse essere candidato al Nobel (e in questo le autorità sovietiche avevano un po’ di ragione a gridare al complotto).
Ma i russi non riuscirono ancora a leggerlo, perché dopo il Premio Nobel il romanzo fu vieppiù proibito.

Pasternak seguì quindi lo stesso destino di Achamtova, Bulgakov, Zoshenko, Cvetaeva, Mandel’stam, Chukovskaja e di tutta la grande letteratura russa del secolo: la poteva leggere tutto il mondo ma non il paese nella cui lingua era stata scritta, non il popolo che più di chiunque l’avrebbe compresa. Il Dottor Zhivago, come il Maestro e Margherita, Sofja Petrov’na, Requiem e tanti altri capolavori attese nel buio Gorbaciov e la Perestrojka, fino a quando fu finalmente pubblicato, nel 1989.
L’Accademia svedese –ormai non più considerata ostile a quel Paese– decise di consegnare allora quel Premio incompiuto; e a Stoccolma, in una cerimonia molto toccante, andò a ritirarlo appunto Evgenij Borisovic Pasternak, in memoria di suo padre (e forse anche noi possiamo intuire per una volta tutto il valore di quel patronimico che i russi portano cucito al loro nome); vale la pena notare che i Pasternak (e i russi) avevano aspettato appena 31 anni…
Nella sua autobiografia, scritta nel 1956, il padre aveva consegnato al figlio il ricordo della Mosca ottocentesca che egli aveva ancora conosciuto da bambino: “Alla fine del secolo Mosca conservava ancora la sua vecchia fisionomia di angolo remoto, tanto pittoresco da sembrare favoloso, con le caratteristiche leggendarie di una terza Roma e di una capitale dell'epoca eroica, nella magnificenza delle sue stupende, innumerevoli chiese”. La Mosca del 1960 era invece lanciata nella conquista dello spazio, impegnata nel sottomettere le rivolte dell’Europa orientale e nel dividere il mondo con una cortina di ferro da cui fosse impossibile fuggire… Non c’era più nulla di pittoresco né di favoloso: le sue chiese erano chiuse quando non distrutte e –come aveva intuito benissimo Achmatova– anche Boris Pasternak era ormai staccato da tutto, da ogni bene terreno, da quella abitudine che è –forse– la vita.
Suo figlio per fortuna è vissuto abbastanza da vedere il nome e il lavoro del padre finalmente onorati anche in quella Russia, dove comunque Boris Pasternak preferì morire piuttosto che vivere senza.

Ed oggi che Evgenij si è spento, anche l’ultimo sottile legame con quegli Schizzi di Komarovo si è interrotto, e quei quattro immensi poeti, così fragili e schivi –ma mai innocui– sono finalmente soli in quel beato giardino lungo le vie del cielo.

Anche la vita è un istante soltanto,
soltanto un dissolversi
di noi stessi in tutti gli altri,
come offertici in dono.

Solo uno sposalizio che dal basso
irrompe dentro le finestre,
solo una canzone, solo un sogno,
solo un colombo azzurrognolo.