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anViagi L’Editoriale

Quindici anni fa

Pietro Giovannini11 gennaio 2014

L'11 gennaio del 1999: uno dei giorni più tristi della mia vita.
Questo lo scrissi a caldo pochi giorni dopo.
Non l'ho mai pubblicato: sono quindici anni che aspettava nel cassetto della memoria.
Ciao Fabrizio, mi manchi sempre uguale.


Lui ha attraversato litri e litri di coralli, quando emerge sul bagnasciuga.
È notte, una notte chiara di stelle, ma le stelle sono in mare e il mare nel vento tiepido che gli soffia tra le spalle; odore di acqua e di terra: rosmarino, sale, basilico, origano... si ferma un momento per riempirsene il volto, ma ecco che già lo chiamano dal molo.
La signora Libertà e la signorina Fantasia lo stanno aspettando in piedi al chiaro di luna: hanno fiori freschi tra i capelli e gonne lunghe gonfiate dal vento.
Sul molo un cartello recita “Arrivederci”, ma potrebbe essere benissimo “Paradiso” o “Anarchia”.
Loro gli accarezzano i capelli e lo baciano sulla bocca. Poi gli accendono una sigaretta, gli fregano il naso da clown, se lo prendono sottobraccio e tutti e tre insieme si allontanano cantando.
Vanno allo stadio: il Genoa sta vincendo lo scudetto.

Ho provato ad immaginare così –con un po’ di fantasia e molta meno allegria– dove si trovi oggi Fabrizio De André (che solo a leggere il suo nome, quel nome così raro sui giornali, mi sembra ancora impossibile che non ci sia più). John Lennon ha scritto una volta che “God is a concept by which we measure our pain”: sarà per questo che in questi momenti ti ritrovi a pensare a Dio, a dargli una forma, a chiedergli una spiegazione. Se è vero, come diceva proprio Fabrizio, che Dio è ciò che ognuno di noi si immagina, allora oggi lui è in un posto meraviglioso, “nel bosco incantato di ogni sua idea”.
Tutto ciò non riesce però a consolarmi.
Allora uno scrive: per distrarsi, per egoismo, per sentirsi meglio.
L'uomo “più curioso, meno stanco, molto più ubriaco di noi” se ne è andato, lasciandoci –come i più fortunati– il ricordo di sé.
Leggo che la Treccani gli dedicherà una voce: beh probabilmente è anche giusto ma, né mio padre, né io, né i miei figli (che pure oggi non ho) avranno mai bisogno di aprirla per ricordarsi di lui.
Per chi poi lo ha potuto conoscere di persona, la sorpresa più bella in fondo l'avevi sempre saputa: tale quale l'artista, mai una delusione. E questo forse è il ricordo più caro.
Quando si vive per tanti anni con qualcuno (anche se poi lui lì di persona non c'è) dai per scontato che sarà sempre così e ti ritrovi impotente di fronte a qualcosa di inevitabile, e di infinitamente triste. Se è così per chi lo ha amato solo attraverso le sue canzoni, per i suoi figli e per Dori che lo hanno visto consumarsi (lui così grande e grosso, che mi ha sempre ricordato un orso), per loro è stato molto peggio, e ti senti un po' egoista...
Nel profilo del suo unico libro, si era definito agricoltore, genovese, padre, concubino e circense: lì in quelle cinque parole davvero c'era tutto Fabrizio. Dori non lo lasciava mai, per le poche volte che ho incontrato Fabrizio, lei era sempre un metro dietro, in silenzio, che lo guardava e capivi subito che era “suo” e un poco la invidiavi. Oggi, con la stessa facilità con cui ne intuivo la fortuna, ne posso immaginare il dolore. Lei, che Fabrizio non lo ha diviso mai con nessuno, ha voluto esequie pubbliche “perché Fabrizio era di tutti” e lo ha onorato fino in fondo, davanti ai fotografi e alle telecamere (che per sua fortuna non avrà neanche visto). Ma persino i rotocalchi hanno avuto un minimo di remora, qualche scrupolo in più. O forse era solo difficile costruire un personaggio sopra ad un uomo che è vissuto esattamente come ti aspettavi che facesse, che ha saputo camminare dritto per la sua strada, lasciando sempre tutti i compromessi agli altri, lui che preferiva rimanere ottico che diventare spacciatore di lenti, lui che al vento non chiedeva risposte ma piuttosto regalava dubbi: era il meno televisivo di tutti e forse, più che un'attenzione particolare, il riserbo su di lui è stato il segno dell'impotenza.
Diverso il discorso dei giornali: quasi tutti commossi, stretti tra il dovere di parlare di lui e il disagio di scriverne quando né Fegiz, né Romana, né Serra, né i tanti altri, avrebbero davvero voluto farlo; articoli rimandati, rifuggiti da mesi, da settembre-ottobre, quando le voci su Fabrizio iniziarono a circolare e se ti capitava di parlarne con qualcuno ricevevi risposte vaghe e insieme tremende: “Sta come tutti”, “Lo hanno detto anche a me, speriamo”, “Ma cosa dici? Parliamo piuttosto di...” e –finché è stato possibile– nessuno ha scritto una riga.
Per Dori, per la sua immensa solitudine, è stato il mio secondo pensiero; il primo è stato semplicemente un incredulo “Così presto?!”
Ero su un treno di ritorno da Parigi, e per giorni i dischi di Brel e Brassens mi erano venuti in mano. Un mattino, senza motivo, nel Marais mi sono ritrovato a pensare a Proudhon (quello che scrisse “Sono io il mio Governo”) e a una frase che disse una mia insegnante all’Università: “Lui era molto amato, ai funerali di Proudhon ci andò tutta Parigi”.
E così è stato per Fabrizio: per una volta ho visto arrivare un'Italia popolare e civile, ho visto un Ministro della Repubblica piangere sul serio, proprio come altre migliaia di donne (già Fabrizio piaceva soprattutto alle donne e ai giovani) e sfilare, ancora increduli e sinceri, i divi e i duri.
E poi tanta gente senza nome, che aveva tutta “lo stesso identico umore”: credo che a Fabrizio sarebbe piaciuto.
Ecco, quando muore un De André te ne accorgi anche solo dalle parole: devi usare le sue, altre non te ne restano.
C'è una frase tra le mille sue che mi viene in mente ora: “Il problema non è che gli volevo bene, perché continuo a volergliene, il problema è che lui ne voleva a me”.
Lo disse di suo padre.
Ciao Fabrizio, mi manchi.