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anViagi L’Editoriale

Palazzo Muruzi, o in una stanza e mezza

Pietro Giovannini16 marzo 2013

“Quei dieci metri quadrati erano tutti miei, ed erano i migliori dieci metri quadrati che io abbia mai avuto.  Se lo spazio ha uno spirito e questo spirito sovrintende alla distribuzione dello spazio, c’è una probabilità che anche qualcuno di quei metri quadri conservi un buon ricordo di me. Specialmente adesso, sotto un piede diverso.”

 

Leggo su “La Stampa” del 29 marzo 2012 che ancora dopo 16 anni dalla morte non si riesce a realizzare un museo della casa di Iosif Brodskij a Pietroburgo. La vicina continua a considerarlo un parassita pornografo e quindi non venderà mai la sua stanza per celebrare un nemico dello Stato sovietico (e ora forse di quello russo).

L'appartamento, il n. 28, si trova al numero 24 di Litenij Prospekt, ma si affaccia sulla via perpendicolare, Pestelija Ulitza, al secondo piano di un palazzo molto famoso: Palazzo Muruzi.

 

San Pietroburgo, anno 1874.

Alexander Muruzi, un principe di origini greche (o forse veneziane) fa costruire all’architetto Serebryakov un eccentrico palazzo moresco sulla Litenij Prospekt, una delle vie più importanti della città, che corre dietro alla Fontanka, il fiume su cui si affacciano alcune delle residenze più belle di Pietroburgo, come il principesco Palazzo Sheremetevo.

Pietroburgo è la Capitale dell’Impero Russo, dove la nobiltà più ricca e sfarzosa d’Europa conduce una vita spensierata, mentre attorno a loro milioni di servi della gleba (la servitù è stata ufficilmente abolita nel 1861, ma di fatto esisterà fino al 1916) muoiono letteralmente di fame.

Nelle città più grandi si sono però lentamente sviluppate anche una piccola borghesia e una prima pionieristica industria; ma soprattutto a Pietroburgo e Mosca ci sono centinaia di artisti che conducono una vita bohèmienne come usa a Parigi: ci sono giornali, riviste, caffé e taverne dove si balla, si canta e si recitano poesie.

Perché sempre in Russia la poesia è un fenomeno di massa.

 

Pietrogrado, anno 1921.

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 anche Palazzo Muruzi è stato convertito ad abitazione popolare e suddiviso in stanze. Ogni stanza è stata assegnata ad una famiglia che condivide con tutte le altre la cucina e il bagno. Per milioni di russi è iniziato così l’incubo della Kommunalka, gli appartamenti in comune, in cui arrivano a coabitare anche 100 persone, con tutto ciò che questo comporta.

Nel frattempo con l'entrata in guerra la città aveva già cambiato nome, russificandolo in Pietrogrado. Subito dopo la Rivoluzione di Ottobre , la Russia è uscita frettolosamente dal primo conflitto mondiale (lasciando alla Germania le frontiere orientali di Brest-Litovsk) per dilaniarsi in una guerra civile terribile tra Bianchi e Rossi. La capitale è tornata a Mosca ed è nata la Ceka, la feroce polizia politica al comando di Felix “di ferro” Dzeržinskij; questi sono gli anni delle Troike (i processi sommari celebrati da tre commissari politici con cui vengono fucilati migliaia di nemici del popolo) e delle carestie nelle grandi città; della rivolta di Kronstadt stroncata da Trotskij (i cui poveri marinai superstiti inaugureranno il primo GuLag, nelle isole Solovietske sul Mar Bianco) e dell’edificazione del “nuovo” Stato Sovietico, in cui anche intellettuali, artisti e scrittori si butteranno a capofitto, trascinati da uno slancio ideale ben presto tradito.

Chi non si saprà adattare alle nuove parole d’ordine verrà a breve isolato, scomunicato, arrestato o fucilato. È il caso del poeta e archeologo Nikolaj Gumilëv, processato come spia bianca e fucilato da una troika nel 1921. O di sua moglie, Anna Achmatova, praticamente murata viva; oppure di Osip e Nadezda Mandel’shtam che appena pochi anni dopo la Rivoluzione iniziano una vita da ebrei erranti, fatta di stenti, umiliazioni, perquisizioni e delazioni.

 

Leningrado, anno 1939.

Vladimir Il’ic Ul’janov detto Lenin muore (forse di sifilide) nel 1924 e la città -Culla della Rivoluzione- gli viene subito intitolata. Lenin però diffidava di Stalin e su questo non si sbagliava.

Infatti il peggio per la Russia arriva con l’ascesa al potere (un potere assoluto) di Iosif Džugašvili, in arte Stalin (ovvero, acciaio): le purghe, l’omicidio di Kirov (pianificato da Stalin stesso), i giganteschi processi-farsa, trasformano il Paese in un incubo; un incubo che in questa città dai Kresti (le Croci, il terribile carcere sulla Neva) si estende in tutte le strade, dentro le case, in ogni stanza.

“Noi viviamo senza quasi avvertire il Paese sotto i piedi / i nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza / ma dove c’è soltanto una mezza conversazione / ci si ricorda del montanaro del Cremlino”, dice Mandel’shtam nella poesia che gli costerà la vita.

È il grande Terrore, che tocca il suo apice con l’Ežovščina (il bienno ‘37-38): la macchina di sterminio del NKVD inghiotte milioni di cittadini sovietici nei GuLag del Nord, nelle camere di tortura della Lubjanka, nei vagoni piombati e nelle navi militari, nei boschi attorno alle città dove fioriscono frettolosi scavi sempre nuovi.

Tra quei milioni di morti anonimi, nelle fosse comuni gelate della taiga siberiana sparisce anche tutta l’intellighenzia sovietica: le migliori menti di una generazione (altro che i celebri versi di Howl di Allen Ginsberg) vengono picchiate, torturate, fucilate o ammazzate di freddo e fatica tra la Vorkuta e la Kolima, nomi che ancora oggi i Russi pronunciano mal volentieri.

Chi si è salvato, se non si è venduto al potere (e spesso non basta), è solo per caso: perché è stato dimenticato…
È il caso di Anna Achmatova o della vedova Mandel’shtam.
Molti però non reggono alla tensione: c'è chi si ammala, chi impazzisce, chi si suicida… se ne vanno così Majakovskij, Cvetaeva, Bulgakov, Pasternak: praticamente tutta la più grande letteratura russa del ‘900.

Intanto l’Unione Sovietica è di nuovo in guerra, prima alleata di Hitler per spartirsi la disgraziata Polonia e prendersi le Repubbliche Baltiche e la Finlandia, e poi sua vittima sacrificale quando nel 1941 l’alleato nazista attaccherà a sorpresa un incredulo Stalin.

Nessun altro Fronte ha conosciuto gli orrori di quello Orientale, e mai una guerra è stata più spietata, feroce e totale: uno specchio fedele dei due peggiori totalitarismi che l'uomo abbia creato, in cui i numeri, le masse, le dimensioni del male sono così gigantesche da non avere termini di confronto.

Da Leningrado al Caucaso durante la loro avanzata i nazisti sterminano sistematicamente gli ebrei (a Baby Yar, una forra accanto a Kiev, uccidono –aiutati dagli Ucraini– 33.000 persone in soli due giorni… la terra spinta dai gas delle decomposizioni si solleverà per mesi in un surreale effetto geyser); ovunque si fucilano spie, sabotatori, partigiani e si praticano rappresaglie in rapporti di 1 a 100; le SS e i Sonderkommandos bruciano interi villaggi, deportano, torturano, impiccano o fucilano migliaia di civili.

I sovietici non sono da meno: nelle foreste attorno a Smolensk hanno liquidato l’élite polacca, ovvero tutti gli ufficiali fatti prigionieri dall’Armata Rossa: oltre 22.000 prigionieri di guerra sono stati uccisi con un colpo alla nuca dal NKVD nell’arco di un mese e mezzo tra l’aprile e il maggio del 1940. Prima di abbandonare una città al nemico si gettano bombe a mano nelle galere per eliminarne i prigionieri politici; se un soldato viene fatto prigioniero (e furono 400.000 solo nel primo mese di guerra) la famiglia al completo viene arrestata per collaborazionismo; intere popolazioni (come i Tatari della Crimea e i Ceceni) considerate inaffidabili, vengono deportate in Kazakhstan dove moriranno a decine di migliaia, semplicemente di freddo e fame.

Ma è senza ombra di dubbio il popolo russo (e sovietico) a pagare il prezzo più alto, e Leningrado diventa la sua città martire.

La città è infatti cinta da assedio dai nazisti: viene bombardata ogni giorno e anche il Palazzo Muruzi, come quasi tutte le case del centro, viene colpito. Hitler infatti vuole radere al suolo la città degli Zar e della Rivoluzione, e per 900 giorni Leningrado lotterà da sola senza ricevere alcun aiuto esterno. I cittadini che non sono riusciti a scappare (o che il regime non ha evacuato) iniziano a morire come mosche: il freddo, la fame, le malattie uccidono prima vecchi e bambini… poi lentamente l’intera città.

Nel gennaio del 1942 si muore al ritmo di oltre 10.000 persone al giorno.

Sull’eroismo della città esiste un’intera letteratura: Shostakovitch compone e fa eseguire qui durante l’Assedio la sua 7ª sinfonia che viene trasmessa per radio in tutta l’Unione Sovietica; davanti alle dimensioni di questa tragedia, tutti i poeti maggiori vengono mobilitati e contribuiscono alla resistenza contro i nazisti, compresa Achmatova che viene tolta dall’isolamento e i cui versi patriottici milioni di cittadini ripeteranno ogni giorno.
Ci sono le testimonianze toccanti, la crudeltà della sorte, i diari (come quello di Tanya Saviceva, una bambina di 11 anni, che si annota le date di morte di tutti i sei familiari fino all’ultimo drammatico “Ora Tanya è rimasta sola”), i monumenti, le fiamme eterne, l’obelisco della vittoria.
Ma sopra a tutto -forse- c’è il cimitero di Piskarievsky; qui davanti alle fosse comuni, dove giacciono i resti di mezzo milione di cittadini russi morti di fame, una lapide ripete ai visitatori il monito in versi di Olga Berggol: “Niente è dimenticato. Nessuno è dimenticato”.

Il 24 maggio del 1940, in questa città, è nato uno dei più grandi poeti del secolo. Lui e la sua famiglia sono tra i pochi sopravvissuti all’Assedio. È ebreo e si chiama Iosif Brodskij.

 

“Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove
onde di zinco vengono a due a due;
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida
che fra queste si arriccia, come un capello umido;
se mai s’arriccia.”

 

 

Autore foto: 
Didascalia: 
Josif Brodskij giovanissimo

 

Palazzo Muruzi, appartamento 28, anno 1963.

Iosif Brodskij ha 23 anni ed è già considerato un genio, sia come traduttore (da autodidatta traduce dal polacco e dall’inglese) che come poeta.
Con i genitori abita in quella “stanza e mezza” dell'appartamento 28 nel Palazzo Muruzi, che descriverà poi in maniera mirabile, rendendo quell’incrocio tra Litenij Prospekt e Pestelija Ulitza, affacciato tra la chiesa di San Pantelimonio e quella della Trasfigurazione, un luogo letterario fuori dal tempo, che non appartiene più alla città ma a milioni di lettori nel mondo.

Da un anno frequenta, con altre giovani promesse, la casa di Anna Achmatova (che dopo la morte di Stalin nel 1953, è stata "riabilitata" da Kruschev) in quel Palazzo Sheremetevo, dove -come tutti- anche lei occupa una stanza in una kommunalka.
I due Palazzi distano meno di un chilometro su Litenij Prospekt e Brodskij va a trovarla ogni giorno: diventa così il suo discepolo prediletto.  Ma anche senza l’insegnamento morale di Achmatova, fin da bambino lui ha avuto un rigetto per tutto ciò che fosse sovietico

“Sono grato a mia madre a mio padre non solo per avermi dato la vita ma anche per non essere riusciti a tirarmi su come uno schiavo”.

A 16 anni è quindi già stato segnalato come “dissidente” (meglio che "nemico del popolo", ma non proprio il massimo per un ragazzo ebreo in Unione Sovietica negli anni ‘50) e tutte le porte attorno a lui si sono chiuse.
I genitori sono disperati: non sanno cosa fare di questo ragazzo ribelle che rifiuta la società sovietica ma d'altra parte si limita a scrivere, leggere, tradurre e declamare versi.
Lo Stato invece sa cosa fare: nel 1963 Brodskij viene accusato di pornografia, attività anti-sovietica e parassitismo.

Il suo processo, celebrato nel 1964, è passato alla storia perché una donna, Frida Vigdorova, riuscì a trascrivere gli atti (prima i processi si tenevano a porte chiuse). La trascrizione fece il giro del mondo:

Giudice: “Qual è la tua professione?”
Brodskij: “Traduttore e poeta”
Giudice: “E chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?”
Brodskij: “Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?”

 

Viene condannato a 5 anni di lavori forzati in una fattoria vicino ad Archangelsk (circolo polare) ma dopo 18 mesi lo rilasciano: per lui ha firmato appelli tutta l’élite culturale sovietica e non: ovviamente Achmatova ma pure Shostakovich, Achmadulina, Evtushenko… In occidente intanto Brodskij è diventato un caso politico imbarazzante e la sua persecuzione si concluderà solo nel 1972, quando il poeta sarà caricato a forza su un aereo per Vienna ed espulso così per sempre dall’Unione Sovietica.

L’ultima cosa che ha scritto sul suolo russo è una lettera a Breznev:

“I poeti ritornano sempre, in carne o sulla carta. Voglio credere che ambedue siano possibili”

 

Autore foto: 
Marianna Volkova
Didascalia: 
Josif Brodskij

 

New York, anno 1996.

Da Vienna Brodskij si è spostato in Inghilterra e quindi negli Stati Uniti, dove ha continuato a scrivere saggi meravigliosi in inglese e imperdibili raccolte di poesie in russo. Insegna in diverse Università, viaggia molto ed è spessissimo in Italia, dove trascorre gli inverni a Venezia: nel libretto “Fondamenta degli Incurabili” dice forse le cose più belle su questa città.

“Io scrivo versi, seduto su una sedia bianca / a cielo aperto, d’inverno, in giacca
ebbro, e pronuncio frasi che allargano gli zigomi / nella lingua che è mia.
E intanto nella tazza si raffredda il caffé. / Sciaborda la laguna e punisce con cento minimi sprazzi
lo sguardo intorbidito dall’ansia di fissare questo paesaggio / capace di fare a meno di me.”

Nel 1987 a Iosif Brodskij è stato assegnato il Premio Nobel e il suo discorso di accettazione, in cui sposta il merito sulla generazione che lo ha preceduto e che è scomparsa nel tritacarne sovietico, resta un capolavoro. Intanto ha subito un’operazione al cuore e ha due bypass, ma –da vero russo– continua a fumare e a bere come prima.

Autore foto: 
Didascalia: 
Brodskij col suo gatto

Dopo il crollo dell’URSS ha ricevuto molti inviti a tornare in patria, ma li ha rifiutati tutti; ha sì vagheggiato con un amico di tornare un giorno –uno solo– ma come turista dalla Finlandia (nelle 24 ore non serve il visto) e in perfetto anonimato!

Del resto in “Ithaca” nel 1972 aveva già chiuso la questione, scrivendo un verso bellissimo a proposito di Ulisse che non si può leggere come non autobiografico: “Tornare qui tra vent'anni, scalzo e trovare sulla sabbia le tue tracce”.
E non ci sono più sue impronte in questa città, la sabbia non le conserva!
Morti i genitori (a cui fu sempre impedito di espatriare), scomparsa Achmatova, morti o in esilio i suoi amici… non ha più motivi per tornare tranne forse che per esibire una celebrità e una ricchezza che sarebbero fuori luogo e –soprattutto– a lui estranee.

Il Palazzo Muruzi è forse in vendita per quattro soldi, ma che senso avrebbe acquistarvi un appartamento ora?

Il 28 gennaio 1996 Iosif Brodskij muore per un attacco di cuore nel suo appartamento.
La notizia viene “battuta” per prima attorno a mezzanotte dalla TASS (la vecchia agenzia di stampa sovietica).

Evidentemente –anche dopo 24 anni– non avevano mai smesso di sorvegliarlo.

Non volendo più tornare a Pietroburgo, Brodskij riposa nel suo modello: a Venezia nel cimitero di San Michele, città da lui considerata “una personale forma di Paradiso”.

 

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Didascalia: 
Brodskij a Venezia

 

San Pietroburgo, anno 2012.

Dormo sul lungofiume Fontanka, all’interno di tre cortili; ho un appartamento all’ultimo piano, a meno di 200 metri da Palazzo Muruzi. Dentro tutto è nuovo tranne le scale: quelle sono ancora le vecchie scale sovietiche; e il contrasto tra il privato e il pubblico, tra dentro e fuori è così ancora più stridente. La casa sarà cento metri o più, con uno spreco di spazio quasi fastidioso: le stanze sembrano disposte a caso, malamente senza nessuna logica, senza esigenze, senza praticità. Pura esibizione di lusso.

E io che dormirò lì dentro per 5 giorni, non faccio che pensare a Brodskij, ai 9 metri quadrati a cui ogni russo aveva diritto nella vita, al racconto straordinario di quell’esperienza, a quella sua “stanza e mezzo” che dovrebbero far leggere a scuola (ma no, meglio di no... poi gli studenti odierebbero Brodskij!).
Eccoli tutti in quelle pagine 190 milioni di russi: per settant’anni tutti stipati come sardine in una continua comunione forzata che non a caso forse porta lo stesso etimo di comunismo. Altro che la privacy, altro che il paradiso! In molte galere ti lasciano più spazio.

Esco in strada: di fronte a me c'è il Palazzo degli Ingegneri, circondato dalle acque; se lo fece costruire come misura di sicurezza uno Zar che temeva di venire assassinato…non gli bastò. Pietroburgo è imbevuta di destino, la Russia tutta ne è imbevuta.

A sinistra proprio dove la Fontanka piega verso Nevskij Prospekt, Palazzo Sheremetevo si specchia sul ghiaccio: ho visitato molte volte la casa-museo di Anna Achmatova, gestita da volontari che non accettano un rublo di mancia. Per me è la cosa più bella di Pietroburgo.

Lì dentro è custodito un oggetto micidiale, che la vecchia guida vi mostrerà con un leggero tremito della mano: è piccolo, rotondo, in ferro o peltro, spoglio di decorazioni e grande appena come il coperchio di un barattolo di conserva.

È un posacenere.

Il posacenere dove è stata bruciata tutta la poesia di Achmatova, da lei stessa, giorno dopo giorno, appena dopo averla mandata a memoria insieme alla vedova Mandel’shtam o alla sua segretaria Chukovskaja.

A memoria.
Per poterla conservare al sicuro.
Un oggetto insignificante, anche bruttino, che ha fatto la differenza tra la vita e la morte di un poeta.

E anche se non bastava non conservare versi proibiti scritti per finire nel GuLag (Mandel’shtam lesse l’epigramma su Stalin a una dozzina di persone appena e tanto bastò ad ucciderlo)… certamente il farlo costituiva una garanzia di arresto.

Ripenso a queste cose mentre svolto a destra nella direzione opposta per imboccare Pestelija Ulitza, la bella chiesa di San Pantelimonio alla mia sinistra con il suo piccolo slargo. Poco oltre all’orizzonte ecco il Palazzo Muruzi, la sua facciata moresca, i balconi del secondo piano... L’incrocio su Litenij Prospekt è al solito molto trafficato: negli angoli oggi trovi una banca, un caffé, negozi di abbigliamento…
Alzo la testa, guardo ancora i balconi al secondo piano: l’appartamento 28 era lì.
È da lì che il giovane Brodskji si affacciava in una foto diventata famosa.
Sotto, Pietroburgo è completamente cambiata, volgare di insegne uguali in tutto il mondo, punteggiate di scritte cirilliche che sole ti riportano subito in Russia.

E la sua casa?
Chiedo di Brodskij in giro ma mi indicano un'altra casa-museo nella Piazza delle Arti. Spiego che quello è un omonimo, Isaak Brodskij, fotografo di regime a cui infatti è stato conservato l’appartamento con decine di foto di Stalin, Zdanov, Molotov e compagnia…
Io invece cerco l’ingresso per la casa di Iosif Brodskij, il poeta. Scuotono la testa, Я не знаю (ja nie snaju – non lo so, in russo), sguardi persi, indifferenza… eppure c'è sul muro un grande bassorilievo che lo ricorda!
Ecco, un anziano che sta entrando proprio lì, ridendo mi dice che probabilmente hanno messo la targa nel posto sbagliato!

Non è omertà, solo ignoranza.

La coltre di retorica dell’era Putin in cui si sono sposati gli Zar e i Comunisti, la Chiesa e lo Stato, la Resistenza e l’Imperialismo ha ovattato la storia, da sempre già distorta e tendenziosa qui più che altrove. Niente è più proibito, ma delle cose poco gradite semplicemente non se ne parla: né a scuola, né sui giornali, né online.
E la gente dimentica.

Entro nei cortili del palazzo: trovo un agenzia di viaggi, operai al lavoro su un tombino tra la neve e il ghiaccio, il retro di un hotel… Inutile: il labirinto cirillico di citofoni, scale e ingressi è impossibile da risolvere. 
Allora mi fermo lì in mezzo e me lo immagino: un ragazzo di 16 anni, coi capelli rossi che esce dal cortile, attraversa l’androne e sbuca sull’incrocio grigio e semideserto, le mani in tasca, il bavero alzato contro il vento del Nord, un quaderno infilato nel giubbotto.
Detesta tutto quello che lo circonda tranne forse l’acqua che scorre, il riflesso delle case nel fiume …gli sarà venuta allora l’idea della pellicola impressionata che riversa milioni di immagini nel golfo di Finlandia?

Oppure eccolo dieci anni dopo quando si dirige –già pedinato–verso l’ingresso posteriore di Sheremetevo, dove al terzo piano abita ancora un poeta proibito; lei oramai è vecchia –da giovane era molto bella e molto famosa– ed è stata perseguitata per decenni, ma è sopravvissuta insieme ai suoi versi.
Lui –sicuramente incerto– le legge i suoi; lei li apprezza, ne intuisce il valore, vede il dono.

Un giorno lei gli recita “Requiem”, il più alto atto di accusa civile contro il sistema sovietico (e infatti resterà inedito fino a Gorbaciov): i versi di Anna Andreevna Gorenko –in arte Achmatova– sono potentissimi e lui ne resta folgorato.

Il ragazzo esce di casa ogni giorno per andare a trovarla finché un giorno lo acchiappano e lo spediscono a spaccare legna ad Archangelsk.
Ma i due continuano a scriversi.
E a scrivere.

Anna Achamatova muore nel 1966, quando Brodskij è stato liberato da pochi mesi. Lei ha avuto il tempo di ritirare il Premio Taormina in Italia e la laurea Honoris Causae a Oxford. Quando scompare, Achmatova è finalmente considerata il più grande poeta russo anche in patria.

Gli “orfani dell’Achmatova” le organizzano un funerale privato (in molti “in alto” avrebbero voluto esequie ufficiali, cortesemente rifiutate), e lei viene seppellita nel piccolo villaggio di Komarovo, a nord della città, nella penombra di un bosco profumato.

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Brodskij and Rein at the Achmatova funeral

In quel bosco l'anno scorso anch'io ho acceso una candela sulla sua pietra.

L’incrocio è ancora lì, ma il rumore è sparito. Il tempo si è annullato, sento solo i versi dei due, la descrizione della strada con le due chiese, la tristezza per il destino di milioni di cittadini sovietici, nati liberi e morti schiavi.

E oggi leggo che l’ultima inquilina dell’appartamento 28 rifiuta di vendere la sua stanza a un trust benefico che vorrebbe trasformare la casa in un Museo dello scrittore. Non c’è da stupirsi: è la figlia dell’unica spiona dell’appartamento, e quindi giustamente continua a considerare il Poeta un parassita e un nemico.
Esattamente come i giudici del 1965: anche adesso il tempo sembra essersi fermato, la signora è ferma da 40 anni come un orologio incantato.
D'altra parte in Russia nessuno ha voglia di fare i conti col passato.

Mi chiedo se sia importante il museo; ci penso a lungo: credo di no.

Se Brodskij lo avesse voluto sarebbe tornato (ha avuto 5 anni per farlo) e la casa gliela avrebbero probabilmente donata all’epoca in un tripudio di festeggiamenti (e la signora sarebbe salita sul carro con gli altri).
Ma della casa, delle pacche sulle spalle e dei falsi abbracci a lui non importava nulla.
Come ogni essere umano, avrebbe voluto rivedere i suoi genitori; non la loro casa in cui furono condannati ad abitare da schiavi fino al loro ultimo giorno.

No, del rifiuto dell'ultima “figlia sovietica” e delle sue idee storte non mi importa proprio!
Mi è spiaciuto di più vedere il sorrisetto ironico di quel pensionato mentre cercava di convincermi che ero nel posto sbagliato.

E forse il posto è davvero sbagliato.
A pensarci bene, Litenij e Pestelija non si incrociano più solo lì tra le insegne e le vetrine globalizzate.
Sono ormai altrove: dentro a quel libro, un luogo del cuore che ci emoziona ogni volta che lo apriamo, a casa nel nostro letto, nella nostra privata stanza e mezza.

 

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Brodkij Memorial in Litenij Prospekt

 

“Soltanto le loro voci sopravvivono nella mia coscienza; forse perché si fondono nella mia voce, così come nei miei lineamenti devono fondersi i loro. Il resto è scomparso, per sempre introvabile, come se la nostra stanza e mezzo fosse stata colpita da una bomba.
Una bomba a tempo che frantuma anche la memoria di un individuo.
Il palazzo è ancora in piedi, ma il posto è svuotato, ripulito, e nuovi inquilini, no truppe, si fanno sotto per occuparlo: ecco, semplicemente, quello che succede con una bomba a tempo. Perchè questa è una guerra a tempo.”