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La Cucina delle Langhe

Pietro Giovannini25 giugno 2014

“Questa valle bisogna averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlare” Cesare Pavese

 

La Cucina delle Langhe oggi così celebrata, è stata mitizzata grazie a due generazioni di grandi cuochi ma soprattutto di indimenticabili, straordinarie “signore”. Suocere o nuore in osterie sperdute sulle mille colline delle Langhe, dove loro sapevano servire piccoli gioielli di equilibrio e abilità manuale con la stessa semplicità con cui aprivano la “sala” buona, accendevano le luci e posavano un vasetto di fiori su una tovaglia a quadretti. Sfilavano così nei primi ristoranti negli anni cinquanta, per la gioia di proto-gourmet della domenica, tajarin sottili come capelli e ravioli del plin da sciogliere sotto la lingua, insalate mitiche di funghi e tartufi, lepri al civet di cui si veniva puntualmente avvisati di fare attenzione ai “balin” di piombo.

Ricette codificate, frutto di tradizioni antiche tramandate di madre in figlia ma sempre incessantemente perfezionate, magari dall’arrivo di una sposa dell’altra collina dove al ripieno dei plin si aggiungeva anche una punta di maggiorana…

Un mondo antico, con tutte le sue regole, dove gli uomini tiravano la pasta gialla dei tajarin e le donne facevano le formaggette dopo la prima mungitura. Un universo gastronomico in cui i sapori forti di una cucina tra le più povere della penisola trovavano perfetta armonia in vini robusti, straordinariamente longevi, fatti, conservati e bevuti sì in allegria ma sempre con una punta di reverenziale rispetto, un po’ come quando si scherza col prete o col medico del paese…

Questo mondo oggi appartiene in larga parte alla leggenda, al Mito di cui queste colline si nutrono, alimentando con la fantasia, la seduzione in migliaia di turisti.

E se è innegabile che le vette enogastronomiche di queste colline salgono sempre più in alto (ben oltre i 851m del Bric Puschera, l’Everest delle Langhe e gli 896m di Mombarcaro, la Vetta delle Langhe), confermando così un’eccellenza oggi acclarata e desiderata ai quattro angoli del pianeta, è anche vero che il vecchio mondo di osterie con la tenda verde e il piatto di colla per i moschini, di privative e commestibili con cucina nel retrobottega, di ristoranti della festa dove il proprietario, con le scarpe lucide e la camicia bianca, ti attendeva sorridente sulla soglia, una cavagna infilata nell’incavo del gomito per mostrare segreti di reali o di trifole appena cavate… beh quel mondo è da tempo in dissolvenza, inevitabile come il futuro, seppiato di amarcord come certe cartoline d’epoca.

Le ultime barricate al nuovo che avanza, i reconditi angoli dove a volte sembra davvero che il tempo si sia fermato, dove magari si trova ancora quel dolcetto con la schiuma e i ravioli annegati nel burro “per non lesinare con la clientela”, insomma gli spasmi e i refoli dei bei tempi andati li sentirete (ancora per qualche anno forse) nelle ultime Langhe al fondo delle valli più lontane… dove magari potrete ancora provare l’emozione della frescura di una sala in penombra o la curiosità di attraversare una cucina dove 3-4 “madamin” smettono di spignattare e, asciugate le mani nel grembiule verde a fiori gialli, vengono con tutte e due a stringere le vostre: una stretta forte, nervosa, sincera... che lo capisci subito chi è che manda avanti casa, famiglia, cascina e östo.

Ecco qui nella Langa più alta ancora magari resistono Osterie: non come cartoline stinte di nostalgia, ma come abitudine, tradizione e più spesso necessità.

Dove a volte si servono i Piatti della Festa, quelle ricette speciali sempre più rare perché così poco politicamente corrette, pietanze che magari si preparavano due o tre volte all’anno, a scandire avvenimenti importanti, riti e sequenze del calendario contadino: la mietitura, la vendemmia, il “dì del massacrin” (il giorno in cui si uccideva il maiale), le processioni, la leva, il carnevale...

Questa miniera di ricette quasi introvabili ma non affatto perdute (sono ampiamente codificate, basta prendere “Nonna Genia” di L. De Giacomi edito da Araba Fenice oppure “Il grande libro della cucina albese” a cura della Famija Albeisa o il recentissimo “Ingredienti” a cura dell’Ecomuseo dei Terrazzamenti edito da Sorì Edizioni) si è esaurita per diverse ragioni di costume. 

Le infauste mode di città hanno ormai bandito l’aglio dalle tavole dei ristoranti, e di conseguenza molte ricette vengono edulcorate (vale la pena citare un cartello appeso in Liguria in una gastronomia, a prevenire le domande idiote dei villeggianti: “Qui da noi, il Pesto senz’aglio si chiama basilico!”); un esempio su tutti, la carne cruda di vitello (battuta a coltello, servita carica di aglio, con un filo d’olio e -a volte- noce moscata: introvabile oggi, perché l’aglio –ahimé– in nome di una presunta verginità dell’alito, viene sostituito da limone e parmigiano). Quindi, a seguire, più niente soma d’aj (bruschetta all’aglio) o bagnet vert (il classico bagnetto verde per la lingua di vitello)…

In campagna poi sempre meno persone allevano bestie per autoconsumo: il maiale, il vitello, il cappone stanno scomparendo dalle stalle e dalle aie delle cascine, mentre resta ancora ampia la diffusione di capre, pecore, conigli e galline…

Inoltre una legislazione iper-igienista (e spesso incompetente) ha bandito una serie di ingredienti strategici. Ecco quindi diventare sempre più rari piatti come la Finanziera (composta di creste e testicoli di gallo, funghi, piselli, interiora, rognone, cervella... un capolavoro di ricercatezza, equilibrio e stagionalità impreziositi dal Marsala), il Fritto Misto (con cervella, filoni, lacetti, animelle di vitello, fegato e salsiccia di maiale, fegato e corate di agnello e capretto, semolino, amaretto, caponet (cavoli ripieni) sobrich (crocchette) di patate e –in stagione– mele, fiori di zucchino, funghi porcini, e molte verdure) e i Piatti del Maiale come la torta di sangue e il fegato, primi di una serie di ghiottonerie che celebravano l’uccisione del “crin”, vera fucina di prelibatezze “una tantum” (se ne allevava uno per casa e lo si scannava a dicembre-gennaio). Ecco dunque le Frisse o Grive (l’omento ripieno di un trito di interiora con uova, formaggio, salsiccia e spezie), i Batsoà (i piedi) cotti in acqua e aceto, gli Orion (le orecchie) con acciughe e peperoni, la Lingua in salsa rossa piccante, le Costine a sposare i Ceci, in uno degli abbinamenti più poveri e grandiosi della cucina contadina… perfino le ossa si tenevano (per insaporire i minestroni) mentre i diversi impasti degli insaccati producevano ovviamente salsicce fresche e lunghe file di salami messi a stagionare nelle cantine.

Per terminare questa sommaria carrellata della grande cucina piemontese ricordiamo poi tre riti collettivi, ideali per riunire combriccole di amici e rintanarsi sotto una volta a mattoni, la stufa accesa, la porta chiusa, la cantina fornita…

In primis il Bollito Misto, da dicembre quando il Bue Grasso sfila a Carrù e le bestie più straordinarie del mondo (allevate amorevolmente all’ingrasso, a sfiorare la tonnellata) riempono le macellerie di mezzo Piemonte: sette tagli, sette ammenicoli e sette salse per una lunga serata.

Poi la Fonduta, a base di fontina, burro, uova e latte per ottenere un crema liscia e densa su cui mani (e tasche) generose gratteranno a lamelle sottili il raro e prezioso Tartufo Bianco d’Alba, l’ingrediente unico e irripetibile di queste colline.

Infine la Bagna Caoda, forse il più celebre dei piatti del Piemonte, un inno all’aglio e alle acciughe, un rito da celebrare in amicizia in autunno ma meglio in inverno, con tante verdure, e tanto vino, da terminare in gloria con l’uovo aperto nello scodellino, mentre fuori inizia ad albeggiare…