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anViagi L’Editoriale

Il canto di Repin

Pietro Giovannini2 dicembre 2018

I cosacchi ridono con occhi di fuoco, nei loro abiti esotici e sgargianti, istoriati di armi e decori, coperti di pellicce e variopinti copricapi.

Una folla che si accalca attorno a un tavolo su cui, chino e in silenzio, una scrivano cerca faticosamente di dipanarsi tra tutte quelle voci.
I cosacchi ridono, urlano, bestemmiano e minacciano, e ancora ridono, fieri di quelle minacce; ed ecco che cercano nuove offese da rivolgere a quel Sultano che ha avuto l’ardire di scrivere loro una lettera, imponendogli di sottomettersi alla Sublime Porta.

La scena è straordinaria, selvaggia e travolgente: si sente il rumore freddo del metallo che cozza sugli scudi, il botto dei pugni sui tavoli, il caos indecifrabile di voci, grida e risate, i cani che abba- iano e il fischio del vento che spazza quella selvaggia terra di frontiera, la Zaporizhia, la Terra oltre le Rapide (del Dnepr).

Non è vero.

È impossibile udire alcunché, perché stiamo guardando un quadro che - anche se come questo è straordinario- resta comunque muto per definizione.
Eppure pare davvero di sentire quei suoni tanto la scena è realistica.
Questa è la magia di Il’ja Repin.


Il dipinto sembra avere vita propria e noi davvero crediamo di sentire i Cosacchi della Zaporizhia dettare la più feroce missiva di insulti mai scritta, fare a pezzi ogni forma di diplomazia così come poco tempo prima hanno distrutto l’esercito di Mehmet IV... il quale però, sebbene sconfitto, ha avuto l’arroganza di chiedere la loro sottomissione...
A loro! Ai Cosacchi, a uomini che si sono guadagnati la libertà da soli e che ora -solo per loro libera scelta- difendono i confini estremi del- l’Impero russo contro gli infedeli! Questa è un’offesa intollerabile!
E quindi:

“Tu, diavolo turco, maledetto compare e fratello del demonio, servitore di Lucifero stesso. Quale straordinario cavaliere sei, tu che non riesci ad uccidere un riccio col tuo culo nudo? Il diavolo caca e il tuo esercito ingrassa. Non avrai, figlio d'una cagna, dei cristiani sotto di te, non temiamo il tuo esercito e per terra e per mare continueremo a darti battaglia, sia maledetta tua madre.
Tu cuoco di Babilonia, carrettiere di Macedonia, birraio di Gerusalemme, fottitore di capre di Alessandria, porcaro di Alto e Basso Egitto, maiale d'Armenia, ladro infame della Podolia, "amato" tartaro, boia di Kam’janec’ idiota del mondo e dell'altro mondo, nipote del Serpente e piaga nel nostro cazzo. Muso di porco, deretano di giumenta, cane di un macellaio, fronte non battezzata, scopati tua madre!
Ecco come gli Zaporozhi ti hanno risposto, essere infimo: non comanderai neanche i maiali di un cristiano. Così concludiamo, visto che non conosciamo la data e non possediamo calendario, il mese è in cielo, l'anno sta scritto sui libri e il giorno è lo stesso da noi come da voi. Puoi baciarci il culo!”
Firmato “L'Otaman Koshovyi Ivan Sirko, con l'intera armata dello Zaporozhia”

Lo zar Alessandro III comprò quel quadro immediatamente, pagandolo una cifra astronomica, per trasformarlo in un simbolo del destino manifesto della Terza Roma come ultimo e invalicabile baluardo contro l’avanzata degli Ottomani infedeli.

Repin era stato -credo- invece molto divertito da quell’aneddoto storico che affondava le radici nella leggenda (non esiste ovviamente copia della risposta dei Cosacchi, anche perché se l’avessero scritta per davvero, sarebbe di certo stata immediatamente distrutta) così come era affascinato dalla figura romanzata del Cosacco, e decise di cogliere quel momento per immortalare la parte più enigmatica dell’anima russa: quella indomabile naïveté che l’animo slavo ha conservato malgrado secoli di civilizzazione, la comunione con la natura, la spontaneità e l’irruenza delle emozioni, l’infantile stupore per il mondo. I Cosacchi, sebbene siano adulti guerrieri feroci e spietati, sono in realtà ritratti come bambini che giocano e ridono del loro scherzo, assolutamente alieni dalle conseguenze dei loro gesti e scevri da ogni ragionamento di convenienza.
Tante volte nella storia russa, questo popolo ha fatto la scelta più difficile, quella meno logica, quella meno conveniente, buttando sul piatto il proprio destino senza preoccuparsi se fosse la scelta giusta. Era però quella in cui credevano, quindi per loro l’unica possibile.

Il quadro è famosissimo e per vederlo si deve andare al Russkji Muzej di Pietroburgo, che è uno dei più ricchi e affascinanti musei di arte russa, dove numerosissimi sono i quadri di Repin, tra i quali trovate molti dei suoi più celebri capolavori.
Ma una sosta più intima ed altrettanto straordinaria la si può fare anche sul golfo di Finlandia, a poche decine di km dalla città, in uno di tanti villaggi adibiti a dacie di villeggiatura da artisti e scrittori... là dove si trovano “I Penati” (come il pittore chiamò, in un’eco di classicismo, la sua ultima residenza), nel villaggio di Koukkala, oggi non a caso ribattezzato Repino.

Una statua nel piazzale lo ritrae giovane e affascinante (e bello lo era stato davvero) attorniato per sempre dai “suoi” Cosacchi, anche se qui in realtà il pittore ci passò la vecchiaia, e sempre qui morì alla bella età di 84 anni, e ancora qui riposa per sempre nel parco dei Penati, come Tolstoj a Jasnaja Poljana...

 Il caso, le guerre e la sua stanchezza per il mondo fecero sì che il più dotato pittore russo del XIX sec morisse in esilio nella neonata Finlandia, rifiutandosi di abbandonare la sua casa solo perché era finita all’estero. Visse per lunghi anni in indigenza, quando per un suo quadro mezza Europa avrebbe fatto follie. Molte sono le cose da raccontare su di lui, ma lo faranno benissimo i volontari e il personale della casa-museo!

A me piace ricordare la sua personale abolizione della servitù, costringendo tramite cartelli e biglietti i frequenti visitatori a far tutto da sé, e invece ospitando alla sua tavola, come altre sue figlie, le due ragazze finlandesi che lo aiutavano nei lunghi anni di vecchiaia.
Nel suo studio un quadro è rimasto sul cavalletto: è il suo ultimo autoritratto, leggermente mosso e un po’ stupito, dipinto con pennelli lunghi un metro per supplire alla presbiopia e realizzato con la mano destra, essendo paralizzata da vent’anni quella sinistra: sembra chiedersi “ma sono io questo?”
Ma anche la casa di Repin è un’illusione: un po’ come i suoni dei Cosacchi anche lei non esiste davvero...

La vera casa venne infatti distrutta durante l’Assedio di Leningrado (e non fu questo il minore dei crimini dei Nazisti) ma era ormai vuota: tutti gli arredi erano stati messi in salvo.E così fu dopo la guerra che la casa venne ricostruita identica (ho dubbi solo su alcune coperture) e di nuovo arredata con le cose care a Repin, per riaprire come museo nel 1962. E vi garantisco che trasmette un emozione e un’atmosfera unica.

Per capire la personalità e il carattere del pittore giova riprendere la testimonianza della figlia di Tolstoj, Tatiana, che racconta un episodio di sconforto dello scrittore che a volte si sentiva inutile:

“Si discuteva una sera a Jasnaja Poljana della divisione del lavoro. In quel tempo mio padre stava scrivendo il saggio “Cosa bisogna fare?”
«Il lavoro manuale è sempre necessario,» diceva, «mentre il più delle volte il nostro lavoro, scientifico o artistico, non serve che a un cerchio ristretto di persone.»
Il pittore Repin, nostro ospite, l'interruppe:
«Permettete Lev Nikolaevič, una mia osservazione personale. Mi capita spesso di vedere operai attaccati ai cavi, che alano parti del battello in costruzione. Un giorno che il pezzo era più pesante del solito, e gli operai sembravano esausti dalla fatica, vidi due di loro staccarsi dal gruppo e saltare sulla trave che stavano trascinando. Con bella voce vigorosa, intonarono un'allegra canzone. La loro energia si comunicò ai compagni che, ritrovate le forze, sentirono meno grave il loro compito.»
«E allora?» chiese mio padre, che aveva ascoltato attentamente e aspettava la conclusione. «Ebbene,» disse Repin in modo discreto, «penso che debbano pure esistere coloro che confortano la vita dei lavoratori con la loro arte. Hanno un compito da assolvere. Mi sento uno di loro. Io voglio essere fra coloro che cantano.»


Nel Novembre del 2017 mi trovavo a Mosca e alle 12 avevo un appuntamento con Irina, una cara amica, per visitare la Galerja Tret’jakova. Purtroppo la sera prima ero stato portato ad una partita dello Spartak nel suo nuovissimo stadio e i postumi alcolici della serata si vedevano tutti...
Irina, con imperturbabile eleganza russa, dopo avermi squadrato ben bene, chiosò con un “Sono cose che capitano” e mi trascinò inflessibile di sala in sala, mentre il mio “pochmel’e” mi tormentava implacabile, finché non lo vidi... un ritratto di normali dimensioni che stava in una sala con altri ritratti, e devo dire non era nemmeno quello che interessava di più il pubblico.
Ma interessava a me.

La bambina ti guarda con il volto in penombra, seduta su una staccionata col vestito buono e il cappello parasole, le scarpe in primo piano. Quasi non sorride, enigmatica e assorta.
Il padre l’ha colta così, con quelle espressioni improvvisamente serie e curiose che solo i bambini hanno; nel quadro tutto tace, in quel raro momento in cui la bambina si fa seria, anche la natura e i campi, gli uccelli e i suoni lontani si fermano.
In questo senso, questo quadro è l’esatto opposto di quello dei Cosacchi.
Vera (questo il nome della figlia) è sospesa immobile nell’aria come su un’altalena immaginaria, proprio come una libellula su uno stagno...
È così infatti questo quadro si chiama: “Stregoza” ovvero “Libellula” ...ma nemmeno quel sottile ronzio sale ora dalla tela.

Anzi il ronzio si è finalmente spento anche nella mia testa, il dopo sbornia d’un colpo si è attenuato, non avverto né stanchezza, né mal di testa, il senso di nausea è sparito e anche l’equilibrio è tornato perfetto... Repin ha fatto un miracolo, grazie a lui, proprio come quegli operai navali sulla trave, anche io ho ritrovato energie che credevo esaurite.
Repin non ha solo regalato alla figlia l’eterna giovinezza, lasciandola sospesa per sempre, con tutta la curiosità per il mondo e per il futuro.

Ma da quel quadro, da quel volto filiale, per noi tutti Il’ja Repin ancora e per sempre canta.