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I Liguri, il Marin e il Mare

Pietro Giovannini25 giugno 2014

Quando nel 173 a.C. Marco Popilio Lenate sconfisse a Caristum i Liguri Statielli (all’interno della campagna militare che porterà i Romani a impadronirsi e poi colonizzare l’intera Gallia Cisalpina) ne uccise almeno 10.000, deportando poi il resto della popolazione (ovvero altrettanti) per venderla in schiavitù.

Fu la fine del dominio ligure sul mare e sulle rotte commerciali tra le Gallie.

Il Senato condannò poi il Console e lo obbligò a risarcire i deportati rendendoli liberi; i sopravvissuti tornarono a casa e fondarono vari villaggi (pagus) in quello che un tempo era stato il loro regno.

La capitale degli Statielli Caristum, distrutta, venne ricostruita dai vincitori, col nome di Acquae Statiellae (l’odierna Acqui Terme), lungo un ramo della nuova via romana, la Aemilia Scauri. Stesso destino subirono i Bagienni (verrà fondata Augusta Bagiennorum, ovvero Benevagienna), gli Epanteri e le tante altre tribù liguri sparse tra le Alpi, il Po, il mar ligure e l’Etruria.

Un’accanita guerriglia proseguì però negli appennini e nei boschi selvaggi tra il Po e il Mare per quasi due secoli, finché quasi involontariamente i liguri non si ritrovarono completamente integrati nella civiltà romana, con tanto di status di civis romanus (con la Lex Roscia di Giulio Cesare del 49 a.C. che attribuiva lo status a tutti gli abitanti al di quà delle Alpi).

È questa secondo me l’origine più antica degli abitanti delle Langhe, cioè dei langhetti come si definiscono oggi.

Plinio il Vecchio li descrive con poca eleganza come “uomini come leoni, donne come uomini” ad eternarne coraggio, ferocia e scarsa avvenenza.

Io amo definirli Liguri senza il mare, senza cioè più quella possibilità di fuga (e di sogni) che fece poi di Genova una delle più forti Repubbliche Marinare per sette secoli.

Una razza molto radicata nelle proprie colline da cui non ha nessuna voglia di uscire: dunque molto stanziale (deriverà da statiello?) e pochissimo curiosa.

Il mare per i langhetti, rubando il testo di una delle più belle canzoni di Paolo Conte, davvero “è un’idea come un’altra”; andare al mare è quasi un disagio “quell'espressione un po' così / che abbiamo noi mentre guardiamo Genova / ed ogni volta l'annusiamo / e circospetti ci muoviamo / un po' randagi ci sentiamo noi.”

Basterebbe questo testo a descrivere i sentimenti contrastanti dei langhetti (e dei piemontesi di quà dal Po) verso il mare e la Liguria che -seppur vicinissima- è vista come un confine invalicabile, un limes culturale e geografico che affascina e spaventa: “Eppur parenti siamo un po' / di quella gente che c'è là / che in fondo in fondo è come noi, selvatica  /ma che paura ci fa quel mare scuro / che si muove anche di notte / e non sta fermo mai.”

C’è la consapevolezza di una precisa specularità di volti, caratteri ed abitudini negli abitanti dell’altro lato degli Appennini, ma appunto incomprensibile perché viziata dalla presenza inquietante del mare (tra l’altro nessuno nelle Langhe sapeva nuotare fino all’altro ieri)

Il langhetto, nella sua asciutta, ruvida praticità, si accontenta di sognarlo il mare e di sentirlo nella brezza –il marin appunto– che a volte spira sulle colline più alte.

Il marin, quel vento caldo e odoroso di sale che al contadino delle colline porta quella meravigliosa sequela di associazioni mentali che solo un poeta come Paolo Conte avrebbe potuto descrivere: “Macaia, scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia...” , subito accostata però al ricordo della proverbiale ricchezza genovese “e intanto, nell'ombra dei loro armadi / tengono lini e vecchie lavande”  per arrivare infine alla solita praticità contadina che si concentra sul tempo e le stagioni “lasciaci tornare ai nostri temporali / Genova ha i giorni tutti uguali.”

Ecco: Genova, la Liguria, il mare hanno i giorni tutti uguali!

Non ci si può regolare, è il regno dell’ozio quando non del vizio, perfetto teatro per fughe notturne con amanti occasionali, di traversate di sfrös (cioè di nascosto) di contrabbandieri, di mercati e mercanti levantini e inaffidabili… in cui un povero langhetto verrebbe preso in mezzo di sicuro. È altrove.

Difficilmente si potrebbe descrivere meglio il rapporto tra questi “liguri senza il mare” e “un mare senza più liguri”  di quanto fa appunto Paolo Conte in Genova per noi.

È interessante forse notare che solo un altro grande cantautore italiano ha descritto così bene la visione di Genova, però facendolo dal mare: D’ä mê riva di Fabrizio De André è “Genova per noi” per chi invece che dal Turchino sta arrivando dalla Lanterna.

Il marin dunque come sogno, amarcord, utopia e salsedine; il marin che rende l’erba di Roccaverano così speciale che il latte delle capre è più buono, più aromatico, più ricco; il marin che passa nelle cantine della Val Curone e affina i salami come in nessun altro posto; il marin che nelle giornate invernali ci porta un filo di tepore, prima che la tramontana lo spazzi via con mezzi i tetti dell’Alta Langa.

La Liguria, seppur a meno di un’ora di macchina dalle colline delle Langhe, è un altro mondo; è lontana e diversa; è un posto da signori che fanno le ferie e possono appunto stare al mare d’estate, gente che non deve battere il grano, raccogliere la frutta e l’uva.

È un sogno a volte, e come tale deve restare.

Il mare non è una cosa da langhetti.

Il vento forse sì, ma non troppo nemmeno lui.