Tu sei qui

anViagi L’Editoriale

Havel, il Presidente che non abbiamo mai avuto

Pietro Giovannini19 dicembre 2011

"Bussavano alla porta
e allora mi alzavo nel cuore della notte e andavo in bottega,
dove i nottambuli di passaggio potevano sentirmi martellare
le assi della bara e imbullettare il raso.
Spesso mi chiedevo chi sarebbe venuto con me
al paese lontano, i nostri nomi argomento
di conversazione della settimana, perché ho notato
che se ne vanno sempre due per volta (…)
E io, l'uomo più serio della città,
m'incamminai con Daisy Fraser."
(da l'Antologia di Spoon River)

Vaclav Havel nel suo ascensore verso il paradiso, con quella sua aria sorniona, avrà forse sorriso sotto i baffi vedendo arrivare appena dietro di lui Kim Jong Il, lurido quasi-ultimo dittatore comunista della povera Corea del Nord.

L'uomo che negli ultimi quarant'anni ha in Europa rappresentato meglio di tutti la forza della parola, il potere delle idee, la carica inarrestabile della lotta non-violenta se ne è andato assieme ad un tragico avanzo del secolo scorso, alla "guida suprema" di un paese di gulag e cortine di ferro ancora in piena efficienza.

Il Drammaturgo col Segretario del Partito Unico; il dissidente che per le sue idee è andato in galera e il tiranno che in galera i dissidenti ce li ha mandati fino all'ultimo ...altro che Daisy Fraser, la povera prostituta di E.L. Masters "che però non finì mai davanti al giudice Arnett senza versare dieci dollari più le spese al fondo scolastico di Spoon River!"

Anche Havel a ben guardare per due volte aveva fatto il becchino: seppellendo prima e con gioia, da leader della Rivoluzione di Velluto, il regime comunista che aveva ridotto il più bel paese della Mitteleuropa in un campo di lavoro grigio e triste; e poi assistendo come Presidente della nuova Repubblica, e stavolta con grande rammarico, alla fine dello stesso Stato cecoslovacco. Havel era contrario (e infatti si dimise) ma quella separazione resta comunque un modello di civiltà e coerenza coi valori di libertà, indipendenza e libero arbitrio che proprio lui ha insegnato tutta la vita; il divorzio soft tra Cechi e Slovacchi è infatti un caso unico al mondo, avvenuto per di più nel 1993, in piene guerre jugoslave, e dimostra semplicemente che un'alternativa alla violenza, all'odio e al conflitto esiste sempre.

Durante i suoi tredici anni da Presidente Havel ha portato il suo paese in Europa, ha rimesso la sua capitale Praga (la più bella città a nord di Venezia) al centro del continente (che lui, nato nel 1936, quando già Hitler concupiva le frontiere ceche, aveva sempre conosciuto mutilato e diviso), ha lavorato per la riconciliazione tra gli Stati dell'Ovest e quelli dell'Est (sono decine i contenziosi lasciati aperti dalla seconda guerra mondiale) e, con la sua autorità morale, ha gettato le basi per la nuova Unione Europea, quella in cui alla frontiera non ci viene chiesto nemmeno più di rallentare, per usare una sua bellissima immagine.

Espressione pura del "potere dei senza potere" (altra sua celebre immagine), dopo la parentesi politica è tornato al suo mestiere di scrittore di teatro, e a un desiderato anonimato. Ha scritto "Gli addii", una pièce teatrale su chi non riesce a staccarsi dal potere e ritirarsi a vita privata, forse ispirandosi alla classe politica che vedeva arrivare dopo di lui (e certo non solo a quella ceca).

Ma i suoi capolavori restano i primi geniali lavori in cui ridicolizzava il comunismo usando le stesse parole dei giornali del partito, dei comunicati televisivi, dei bollettini delle fabbriche, in un teatro dell'assurdo in cui purtroppo era però tutto vero.
Come logico in una dittatura, Havel finì presto in carcere, ma non si stancò per nulla di prendere in giro quel potere assoluto e capillare ma sempre vuoto e privo di senso: il manifesto di dis-senso del gruppo Charta 77 formò anzi le coscienze di chi –dodici anni più tardi– raduno dopo raduno, manifestazione dopo manifestazione, sciopero dopo sciopero abbatté il regime.
E quando la Repubblica Socialista di Cecoslovacchia cessò di esistere, il popolo volle al potere, al grido hussita di "pravda vitezi" (La verità vince), proprio lui, Vaclav Havel, un poeta e drammaturgo appena uscito di galera.

Una cosa impensabile in qualunque altro paese europeo!

Ho l'immagine del ceco Havel accanto all'anziano slovacco Dubcek (promosso giardiniere da Breznev, dopo la Primavera del 1968, distrutta dai tank sovietici) affacciati in piazza San Venceslao, dopo l'ultima (e più bella) Defenestrazione di Praga nel novembre del 1989: pochi giorni prima era caduto il Muro a Berlino; Havel era stato arrestato per l'ultima volta appena il 28 di ottobre. Ed entrambi erano lì a ricordare a 300.000 persone in festa che "chi arriva troppo tardi all'appuntamento con la Storia è punito dalla vita" e che alla fine appunto "la verità vince".

Vaclav Havel in tutto ha passato 5 anni nelle carceri comuniste (giocandosi la salute e i polmoni), 44 anni sotto quella dittatura più 6 di occupazione nazista (una delle peggiori per altro, perché è a Praga che venne ucciso in un attentato dei partigiani cechi, Reinhard Heydrich, il vero regista della Conferenza di Wannsee, dove fu decisa la Soluzione Finale).
Insomma, se togliamo i suoi primi tre anni di vita, Havel ha vissuto da uomo libero appena 22 dei suoi 75 anni: pochi forse per essere davvero felice, abbastanza però per essere ricordato come un padre morale da tutti gli Europei, che infatti da ieri lo piangono, e non solo in Repubblica Ceca.

Io ho un ricordo personale di Havel, un ricordo molto bello a cui tengo molto: era il 2003 e al Letna Park (il grande parco alle spalle del castello di Praga) suonavano, nell'unica data a est di Monaco, i Rolling Stones.

Io ero lì con mia moglie e Federica di appena nove anni, proprio accanto ad un piccolo palco annegato in mezzo a 200.000 persone dove gli Stones avrebbero eseguito una manciata di pezzi in acustico, superando la folla su di un ponte telescopico; Federica, grazie all'intelligenza della security ceca (provate a farlo in Italia!), sedeva oltre le transenne, ormai sul palco: una bambina bionda pronta a ricevere plettri e buffetti dai ragazzi più cattivi del rock (una cosa questa di cui ancora oggi andiamo tutti molto fieri in famiglia).

Ma per me la vera sorpresa fu vedere salire prima del concerto proprio Havel!

Jeans e camicia casual, Havel entrò sul gigantesco palco principale da solo, con l'aria di uno che avrebbe preferito starsene in prima fila a strapparsi i capelli su Sympathy for the devil: microfono in mano iniziò in inglese a presentare lui, da Presidente della Repubblica, i Rolling Stones!!!
Il boato della folle fu enorme (più che per gli Stones poco dopo…)

Havel fece gli auguri a Jagger che compiva 60 anni quel giorno e come un papà premuroso raccomandò alla gente di non spingere troppo davanti che qualcuno poteva farsi male. Poi con poche frasi chiese a tutti i ragazzi (c'era gente da mezza Europa orientale) di godersi quel giorno di festa e di riflettere su come appena pochi anni prima anche solo un concerto rock fosse temuto e proibito dal totalitarismo.
Un brivido corse attraverso tutta la folla: quell'uomo sul palco aveva lottato tutta la vita contro la dittatura, il partito unico e il pensiero unico, anche solo perché pure i ragazzi cechi potessero sentire liberamente il rock'n'roll, cosa questa che alla sua generazione era stata proibita, assieme alla letteratura, al cinema, al teatro, alla poesia…

Avrei voluto anche io avere un Presidente così (all'epoca il convento passava Ciampi, non so se mi spiego…), perché Vaclav Havel è stato il Presidente che tutti noi non abbiamo mai avuto, e che in questa Europa ormai in mano ai banchieri, con al posto di una Costituzione, lo spread …e al posto di un governo, un'agenzia di rating… forse non avremo mai più.

La sua lezione si può forse ritrovare nell'ambulante egiziano che si da fuoco (ricordate Ian Palack?) in piazza Tahrir, o nelle città russe finalmente piene di gente stanca di menzogne, furti e brogli, o ancora nelle tende montate davanti a Wall Street, insomma ovunque la coscienza del singolo si ribelli all'ingiustizia, alla ottusità, alla violenza e si unisca con altri individui liberi, liberi nella mente.
Il meccanismo innescato diventa inarrestabile e alla fine forse davvero la Verità vince.

E mi piace pensare che in quell'ascensore per il paradiso, sotto quei baffi sornioni, oggi Vaclav Havel stia spiegando, con la calma, la pazienza e l'indomabile volontà di sempre, il concetto del "potere dei senza potere" perfino a un tipo come Kim Jong Il.