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Storia di un uomo che non doveva morire.
“Ci sono delle persone per cui Dio avrebbe dovuto fare delle eccezioni e non obbligarli a morire come tutti gli altri essere umani ma, a vantaggio dell’umanità intera, mantenerli nel loro peso forma, intorno ai 150-160 kg” (Bruno Lauzi)
Ho conosciuto Giacomo Bologna, in arte “Braida”, nel 1966.
Mi ero da poco trasferito da Castellazzo Bormida ad Asti per lavoro. La Provincia del Grappolo mi intrigò da subito e fu così che decisi di avvicinarmi professionalmente al vino. A quei tempi c’erano un’infinità di corsi alla Scuola Agraria di Asti: potatore, assaggiatore, cantiniere etc. Io me li feci tutti di sera a ore perse.
In questi percorsi incrociai un paio di volte Giacomo ma diventammo amici solo il giorno che decisi di andare a Rocchetta Tanaro a mangiare nel suo òsto: la Trattoria Braida che aveva aperto nel 1958, rimpiazzando il celebre Bar degli Amici.
Braida era lo stranòm del padre Giuseppe, a sua volta mutuato da un altro personaggio, un commerciante di cavalli che era anche un fenomeno del balon -il pallone elastico- a cui pare Pinòto assomigliasse. Anche il padre di Giacomo amava cavalli (faceva il carrettiere e morirà sotto un carro che Giacomo aveva appena quindici anni) e pallone elastico e dopo un po’ il nome si confuse al punto che non si capiva più chi fosse il vero “Braida”. Poco importa in quanto quel soprannome “fenogliano” rimase poi appiccicato al figlio Giacomo che manco a dirlo fin da ragazzino nutriva un’attrazione smodata per cavalli e balon. E qui ci potremmo già vedere una bella dose di predestinazione, soprattutto se si pensa che il Marchese Mario Incisa della Rocchetta aveva allevato “Ribot” e inventato poi il Sassicaia a Bolgheri.
E così io Beppe Orsini, allora giovane di belle speranze (e migliore presenza) ma assolutamente digiuno di enogastronomia, entrando in quella sala di lato al bar, sulla piazza principale del paese, in qualche maniera entrai anche nel mondo “del Bello e del Buono” mondo che non ho più lasciato.
E se questo mondo ha avuto mai un anfitrione, questo è stato (ma io direi “è ancora”) Giacomo Braida Bologna.
Mi riconobbe a vista e dopo due minuti (e qualche bicchiere di Barbera) eravamo già amici per la pelle. Giacomo aveva questa capacità unica di entrare in sintonia con le persone facendole sentire tutte importanti e speciali: era una dote naturale che chiunque lo abbia conosciuto gli riconosce subito. È per questo che anche persone che poi in effetti lo vissero poco, ne parlano come se fosse stato il loro secondo padre.
Io però uno come Giacomo, una volta trovato, non me lo sono più fatto scappare!
I ricordi a distanza di 24 anni da quell’ultimo Natale sono nitidi e sovrapposti insieme, anche perché di Giacomo io ho scritto e parlato un’infinità di volte. Non farò quindi un saggio cronologico ma ci tengo a condividere con voi i miei ricordi su di lui, ma anche su Anna, sua moglie, e su quel piccolo grande centro del mondo che è stata Rocchetta Beach, perché sono tra i ricordi più belli che ho nel cassetto del cuore.
Sono stato molto fortunato nella mia vita perché davvero ho incontrato le persone giuste (Giacomo, Veronelli, Pillon, Levi, Lupano…), non giuste perché ammanicate (i fafioché avrebbe detto Giacomo) come si potrebbe pensare oggi, ma quelle che ti fanno capire i valori della vita e crescere culturalmente. Insomma gli amici che ti fanno vivere bene.
In questo senso Giaco è stato un compagno di vita per un quarto di secolo come solo Veronelli, che incontrai proprio insieme a Braida nel 1972 alla Rai di Torino; per entrambi provo ancora oggi una ricononoscenza e un amore senza fine. Come sanno bene tutti i nostri amici, Giacomo e Gino sono ancora qui con me, perché ogni volta che ci si ritrova intorno a una tavola, o a una fiera o a un mercato, ecco che sempre pensiamo a loro e in qualche modo li sentiamo accanto a noi.
“I piemontesi sono pazzi, sono brasiliani con la nebbia dentro” (Bruno Lauzi)
Giacomo Bologna è la Barbera, e la Barbera è il Piemonte. The big Jack, come lo chiamarono subito gli americani, è tutto quello che il Piemonte racchiude e conserva: la follia lucida, la tenacia contadina, la generosità pubblica e la risata privata, l’orgoglio e la testardaggine che non sente ragioni se non l’istinto.
Una sola cosa non aveva Giacomo del Piemontese: la prudenza, e meno male!
Perché nella sua inconscienza sapeva credere ciecamente ai suoi sogni e anche far sognare i suoi amici. L’elenco delle sue intuizioni, a volte vere follie che invece sono diventate magnifiche realtà, è lungo e sorprendente: si va dal vino di Giovanna e Bruno Lauzi alle lingue di suocera di Mario Fongo, dalle bornie del Mongetto alla cognà di Paolo Frola, dal fegato grasso di Gioacchino Palestro al Loazzolo di Giancarlo Scaglione, senza dimenticare i salami di Berruti a Rocchetta Palafea e la robiola di Roccaverano di Nervi; ma poi c’era la passione per l’allevamento dei cavalli (e del giornale Cavalli & Corse) con Giacomo De Laude, la scoperta del talento di un giovane Rivera ancora all’Alessandria (condivisa con l’avvocato Testa, il secondo padre di Giacomo) o l’amore per il grande jazz italiano che aveva una sua seconda casa proprio a Rocchetta. Se chiudo gli occhi mi rivedo Basso, Coscia, Valdambrini e Piana alternare virtuosi assoli alle zingarate con Paolo Frola, cantautore surreale e vero animatore campestre di mille cene e feste.
“Il mio paese non è una sorpresa, son dieci vigne sei case e una chiesa.
Il mio paese non è una scoperta, ma il cielo è una coperta sulla campagna stesa.”
Il testo di questa canzone di Frola lo scrisse Gianni Mura su una tovaglia di carta nell’osteria di Giacomo ed è ancora per me la più bella sintesi della campagna italiana e la descrizione più autentica di Rocchetta Tanaro.
Siamo sull’orlo delle colline monferrine che scivolano nel Tanaro e oltre diventano pianura di grano e nebbia. Un paese come tanti altri, sei case e una chiesa, circondato di vigne e boschi che ad un’occhiata distratta non ha nulla di speciale. E invece le persone che ci capitavano restavano stupite, a volte folgorate, perché qui spesso si rimaneva impigliati nella simpatia della gente, nella voglia di festa per qualunque ragione e in ogni stagione, nelle piccole strane assurdità come la banda del paese con le fruste, oppure Chinin, il matto lucido del paese, che girava in bici di notte a suonare i campanelli dei notabil, sempre però in impeccabile cappotto scuro. Oppure Bo, il fabbro-artista, che creava grappoli di ferro battuto, senza dimenticare le infinite notti di gozzoviglie in attesa del fatidico “lasciami andare”, cioè l’ultima bottiglia di commiato che arrivava sempre più tardi. Una volta arrivò dopo sei giorni, passati a cantare, bere e mangiare tra le due Rocchette, come ricordano ancora bene tre di loro: Pierino Barbero, Berruti padre e Beppe il Cit.
“Giacomo Bologna, tappi non parole” (Cesare Pillon)
Non si può raccontare Giacomo senza parlare di Rocchetta e non si può oggi pensare a Rocchetta senza immediatamente ricordarsi di Giacomo. Un carisma e una generosità trascinanti che lo hanno fatto amare da tutti, superando le inevitabili gelosie, le invidie e le competizioni dei piccoli borghi. Sembrano parole retoriche e scontate ma solo per chi non ha vissuto gli slanci, le improvvisate e le risate incontenibili di questo gigante che aveva sempre un tartufo in tasca, una bottiglia ancora da bere e una storia ancora da raccontare.
E aveva una sorpresa per tutti: nel 1987 mi ha organizzato una festa al Castello di Grinzane in cui c’erano tutti, dai produttori ai cuochi, dagli amici alla Rai: non me l’aspettavo proprio e mi sono messo a piangere come un bambino; mi han dato una coppa con su scritto “A Beppe Orsini, il Piemonte riconoscente.” : solo Giacomo era capace di cose del genere.
C’è poi la figura di Padre Eligio a cui Giacomo era legatissimo (la sua generosità diventava qui pura beneficenza anonima) che, in occasione dei 25 anni di matrimonio, celebrò nuovamente le nozze di Giacomo e Anna con benedizione di Barbera e comunione a lingue di suocera…poi Angelo Paracucchi cucinò per un centinaio di invitati, concludendo in bellezza con Château d’Yquem per tutti.
E qui devo ricordare come dietro a Giacomo, alla sua incontenibile personalità, ci sia sempre stata Anna: una sicurezza, una fibra (e una pazienza) ammirevoli. Anna che quando lo incontra al ballo di Capodanno rimane stregata (eccolo il paese: dove le ragazze ancora debuttano ai balli e si innamorano del cavaliere!) e quando lo sposa quasi non riesce a festeggiare il matrimonio perché lo sposo viene rapito dagli amici e il viaggio di nozze slitta di un giorno. Andranno una settimana ad Amalfi e al ritorno lo prelevano direttamente al treno lasciandola con le valigie (e un auto di servizio) bell’e pronta per andare a servire in osteria che era tutto pieno! Lui arriverà due giorni dopo, come sempre.
Anna che gli dà due figli a loro immagine e somiglianza (Raffaella è Giacomo mentre Beppe è Anna, occhiali compresi) e che tiene in piedi un’azienda che oltre alle intuizioni folgoranti di Giacomo ha bisogno anche di qualcuno che faccia quadrare i conti e si ricordi di incassare le fatture. Anna su cui nessuno, dopo quel Natale infausto del 1990, avrebbe scommesso un copeco e che invece non solo tiene in piedi la Cantina Braida ma la rende grande come forse solo nei suoi sogni l’avrebbe pensata Giacomo (ampliandola ancora nel 1994 e poi dopo il 2000 alle Ciappellette). È con Anna ormai sola che Braida si afferma tra i primi marchi di vino italiani nel mondo.
Anna Martinengo Bologna da Belveglio, sempre un passo dietro Giacomo nell’ombra, la sua più grande fortuna, la dimostrazione (se mai ce ne fosse il caso) che dietro ogni grande uomo c’è una donna più grande.
“Viva la Barbera” (Giacomo Bologna su La Stampa, in risposta allo scandalo metanolo)
In quel primo incontro, così dopo 2 minuti, Giacomo mi stava raccontando come quattro anni prima avesse litigato col commerciante che gli ritirava il vino sfuso perché non voleva pagargli il 1961 (un’annata epocale) più del solito. Giacomo per sicurezza gli aveva chiesto il doppio (150 lire al litro) e l’altro non aveva nessuna intenzione di salire sopre le 80 lire… Con uno dei suoi colpi di testa (che solo per lui diventavano anche colpi di fortuna!) decide allora di smettere di vendere il vino sfuso in osteria e di imbottigliare con la sua etichetta tutta la produzione: nasce la Barbera di Rocchetta Tanaro, vigneto “La Monella”, il suo primo successo. Una barbera giovane e vivace con un fragrante bouquet che sapeva essere intrigante e piacevole pur in una struttura importante.
Tra un merluzzo al verde e due tagliatelle al ragù di mamma Caterina, ci bevemmo un paio di bottiglie per celebrare degnamente la sua decisione e da allora io ho avuto la fortuna e il privilegio di assistere alla nascita di tutti i suoi grandi vini.
Ricordo con nostalgia il suo immaginifico catalogo, con soli tre vini di Braida (Barbera, Grignolino e Brachetto) e, man mano che il tempo passava (e le amicizie aumentavano), una lista sempre crescente di “amici del cuore” che lui rendeva famosi e distribuiva: da Felluga a De Bartoli, da Gresy a Hauner, da Schiopetto alla Marzi; c’è stato un momento in cui Giacomo “aiutava” anche i più grandi barolisti, quando ahimé il Barolo proprio non lo voleva nessuno: ricordo tutti e due i Conterno e il vecchio Pira. Perché Giacomo aveva un’infinità di conoscenze, clienti privati di prestigio, contatti e ammiratori che credevano ciecamente ad ogni suo suggerimento. Le Fiere degli anni ‘70 (Torino, Milano e soprattuto il Bibe di Genova) lo vedevano assoluto protagonista con un marketing inventato e inimitabile fatto di bevute, mangiate, aneddoti, zingarate e “meno 20” tutte le sere. E così per tutti gli anni ‘70.
Ma il catalogo è ancora nulla rispetto al ritiro di tutto il magazzino francese della Carpano (che importava in Italia Romanée-Conti) per cui spese una fortuna ma si portò a casa centinaia di casse e magnum, in serie complete di varie annate, del vino più famoso del mondo! Ricordo che stappava così come fosse acqua minerale La Tâche o Richebourg prendendole a caso e rovinando irrimediabilmente una serie che così era certo di bersi solo lui (Tranquilla Anna, la finiamo!), per la disperazione di Anna che vedeva volare nei bicchieri degli amici tutto l’investimento fatto: d’altra parte un suo celebre aforisma recita: “Tutto quello che beviamo non resta nell’invenduto!”
La storia del Bricco dell’Uccellone l’avrete sentita già mille volte ma io voglio sottolineare qui l’apertura mentale di quell’eterno ragazzo che del vino e per il vino sempre si stupiva.
Il fatto che gli americani potessero fare dei grandi vini era una cosa inconcepibile per un piemontese doc. E così, quando va in California e beve dei rossi senza identità né radici ma grandi, anzi grandissimi perfino lui resta scoraggiato: perché per la prima volta la sua fede nel vigneto Piemonte vacilla. Quando telefona ad Anna dicendo “Abbiamo sbagliato tutto, questi qui sono avanti a noi di un bel pezzo” non è il solito Giacomo. Ma come ho detto la prudenza non era certo la dote prima di Braida: in California capisce l’importanza della barrique e intuisce che potrebbe far svoltare la sua Barbera; così decide di approfondire il discorso con un corso a Beaune (era già stato in Borgogna nel 1970 in un viaggio più di piacere che di studio) e una celebre foto lo ritrae dopo trent’anni di nuovo tra i banchi di scuola con compagni speciali come Maurizio Zanella e Angelo Gaja.
“Ai nostri dolor insieme brindiam / col tuo bicchiere di barbera, col mio bicchiere di champagne” (da “Barbera e Champagne” di Giorgio Gaber)
Il Bricco (che viene chiamato così perché la proprietaria sembrava un corvaccio, e non per gli inevitabili doppi-sensi che Lupano per primo manifesterà nei suoi coppi) esce nel 1984, annata 1982: un anno di legno francese, un anno in bottiglia, un’infinità di assaggi e prove.
Il Bricco dell’Uccellone è il terzo figlio di Giacomo.
Il successo è clamoroso (e Giacomo vede finalmente i francesi comprare Barbera) tanto che alla prossima grande vendemmia verrà affiancato dal Bricco della Bigotta, altro vigneto che mette così d’accordo sacro e profano, come ricordava benissimo -con un sorriso che non ti aspetti- il Conte Riccardo Riccardi, indimenticabile meraviglioso gourmet.
Nel frattempo Giacomo ha inaugurato la cantina/casa/taverna nuova dove una grande barricaia accoglie i visitatori e il suo carisma tiene i punti fermi sul vino di qualità mentre lo scandalo del metanolo scuote l’intera nazione: la pagina sulla Stampa, anonima, è il suo grido di rabbia e di orgoglio in difesa del suo vitigno e di tutti i vignaioli onesti d’italia.
Il terzo grande cru della svolta, quel Bricco Georgia che Giacomo voleva dedicare alla patria del vino fregandosene di muri, ideologie e marketing (resterà sempre immortale il suo gemellaggio coi vignaioli georgiani che verranno a vendemmiare a Rocchetta nel 1989), esce a marzo del 1991: si chiama “Ai suma” (Ci siamo! …uno dei suoi più frequenti intercalare) ma Giacomo non c’è già più.
È morto la notte di Natale del 1990 (come sua madre 5 anni prima) dopo aver scelto regali speciali per tutti i suoi amici.
Oltre alla sua famiglia c’eravamo io, suo fratello Carlo, Mario Mariani e Bruno Lauzi; Veronelli lo aveva visto ancora poche ore prima e ne scrive un bellissimo epitaffio “Ho bevuto il mio vino come la mia vita. La mia vita che ho bevuto come un vino”.
Due mesi prima avevamo festeggiato ancora Ognissanti con ceci e costine (e Monella) assieme agli amici più cari direttamente in clinica tra lo stupore dei medici a cui Giacomo dice: “Non li capisco questi medici, non mi fanno vivere”.
“Verrà l’Anticristo. E sarà vegetariano ed astemio.” (Conte Riccardo Riccardi)
Anche solo per questo aforisma del Conte, sono certo che Giacomo Bologna ci stia aspettando in Paradiso (Boia fauss, ‘ndoma c’andoma!), assieme ad Anna, Romano Levi, Gianni Basso, Alessandro Lupano, Bruno Lauzi e Gino Veronelli; un posto quindi molto simile a quello in cui è vissuto liberamente, pienamente, senza un solo rimorso, senza un solo rimpianto.
“Costruitevi una cantina ampia, spaziosa, ben aerata e rallegratela di tante belle bottiglie, queste ritte, quelle coricate, da considerare con occhio amico nelle sere di Primavera, Estate, Autunno e Inverno sogghignando al pensiero di quell’uomo senza canti e senza suoni, senza donne e senza vino, che dovrebbe vivere una decina di anni più di voi.” (Giacomo Bologna)