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La casa contadina non nasce per motivi estetici ma per motivi funzionali.
A eccezione delle case dei facoltosi latifondisti agrari, da cui il padrone doveva dominare la proprietà e vedere “il bel suo”, che importavano già modi di costruire urbani, la cascina di collina solitamente iniziava con una camera e una stalla, un piccolo rustico costruito con mano d’opera familiare sotto la guida di un muratore che era quello che “sapeva”.
Il luogo veniva scelto con cura e intelligenza: l’impossibilità di operare cospicui movimenti di terra consigliava luoghi asciutti, ove la conformazione naturale del terreno suggeriva il sito, riparato dal vento sulla mezza costa superiore, sul versante dei “sorì”. Era vitale inoltre disporre di un pozzo il più possibile vicino. Nel corso del tempo si aggiungevano poi altri elementi.
Nei “Principi di architettura civile” il Milizia nel 1781 prescriveva utili norme per la costruzione delle case rurali: “È essenziale – diceva – che le case rustiche, destinate per gli agricoltori e per le faccende campestri, debbansi contraddistinguere nella loro semplicità per una situazione salubre, per una comoda distribuzione. La casa sarà da un lato provvista di una spaziosa cucina col focolare nel mezzo e con camere da letto intorno; e dall’altro lato saranno altre stanze o magazzini per riporvi gli strumenti rurali e i prodotti. Al di sopra si possono praticare alcune camere per il servizio del padrone. E nei sotterranei usar delle cantine se il bisogno lo richiede, ma come quelle vanno esposte a settentrione perché il vino riscaldato dal sole si intorbida, svanisce e si guasta. Al di sopra i granai, quando i muri siano ben grossi smaltati e con volte ben difese … può aver contigue dalla parte di dietro le stalle che vanno esposte a oriente. Per allontanare possibilmente i malori dalle stalle si è adottato di rigettare il mal ideato uso di far stalle basse e pochissimo aerate, e di abbracciar l’altro di costruirle più alte, non a soffitta di legno, ma a volta di muro. Non con ispiragli, ma con molte finestre da poter chiudere e aprire.”
Gli spazi d’abitazione erano rivolti a sud, con finestre della dimensione adatta più a trattenere il calore d’inverno che a permettere la luce del giorno; d’altronde solo poche case “nobili” avevano vetri alle finestre, normalmente si usavano ante cieche in legno, intrecci di canne oppure stuoie di paglia intrecciata. La stalla era contigua al fienile che doveva essere ben esposto e arieggiato. Rivolta a nord ci poteva essere la cantina, raramente ipogea, con botti, torchi e bigonce. Case molto elastiche, meglio se sul tufo, prive di fondazioni o sottomurazioni, costruite con pietre nell’alta collina e in montagna o in terra argillosa e mattoni altrove.
Le tramezze erano in terra battuta e paglia e le volte in mattoni crudi si alternavano agli assiti su travi. I pavimenti erano di norma in terra battuta, e lo spessore dei muri perimetrali portanti garantiva un relativo isolamento sia d’estate che d’inverno. Il maledetto freddo doveva essere, al tempo del Milizia, il nemico più temuto. Il focolare c’era solo in cucina e la camera per dormire poteva essere posta al di sopra per beneficiare al massimo del calore. Ove possibile altri locali “una o due stanze in più per causa de’ bachi da seta, che non posson ricevere siti e male odori di stalle o altro, e però abbiano le aperture delle finestre a ponente e mezzogiorno.” (Morozzi, 1770)
In genere poteva esserci un rustico giustapposto o saldato alla casa sul medesimo asse oppure a squadra , per gli attrezzi e i carri. I locali per ospitare la famiglia erano solo una piccola parte della struttura per permettere la decente sopravvivenza del capitale umano, persone e animali, unica forza motrice dell’azienda. La maggior parte del nucleo edile era destinata al bestiame, agli attrezzi o “macchine”, allo stoccaggio dei raccolti o alla loro lavorazione e trasformazione.
La forma della costruzione è quindi determinata dalla natura economica, dall’ampiezza e dal tipo di produzioni che si svolgono nel nucleo rurale. Per questo ogni cambiamento, ogni modifica delle produzioni ha determinato modifiche nell’organizzazione aziendale e, in tempi lunghi, modifiche delle forme e delle strutture dei fabbricati.
Così abbiamo le case a corte, tipiche della pianura a economia estensiva, ampie e articolate, che formano un perimetro quadro intorno a uno spazio aperto. Le lavorazioni prevedevano la presenza di molte famiglie. Si coltivavano frumento, granoturco e riso con spazi per lo stoccaggio molto ampi. Si praticava l’allevamento del bestiame con necessità di grandi stalle e fienili.
In collina dominava invece, dalla fine del ‘700, la piccola proprietà che ha determinato una maggiore frammentazione catastale e una proliferazione di nuclei edili. La struttura molto più piccola di queste aziende prevede di norma la presenza di una o due famiglie in cui tutti lavorano nel fondo, è ubicata a media collina con configurazione orizzontale, disposta parallelamente alle curve di livello. La produzione è differenziata: arativi, prati e vigneti e il bestiame, man mano che si sale verso la montagna, prevede la presenza di capre e pecore; quindi stalle molto più piccole e minori necessità di stoccaggio. La presenza di macchine si limita al carro, di qui l’assenza di porticati o rimesse. Nelle zone collinari compare il “casotto” per riporre gli attrezzi necessari alla lavorazione di vigneti a volte distanti dalla casa.
Le condizioni di vita nelle campagne di Langhe e Monferrato si sono mantenute invariate fino alla metà del ‘900, tanto che addirittura il “De re edificatoria”, trattato di architettura scritto in latino da Leon Battista Alberti nel 1450, sembra riferirsi ancora all’epoca recente dei nostri nonni: “Le abitazioni dei contadini devono costruirsi nei limiti delle diverse situazioni per ospitare con utilità famiglie, bestiami e le robe provenienti dal campo. E perciò si deve fare una grande cucina col forno e il focolare. Presso la cucina ci sarà una camera per il capofamiglia, con la cassa del pane e la carne salata. Le altre persone verranno sistemate in modo che ciascuno sia sopra le proprie cose e pronto a eseguirle. Si risponderà alle esigenze dei bovini e degli ovini non meno che a quelle della propria moglie.”
In seguito all’abbandono delle campagne dovuto all’urbanesimo e alla nascita dell’industria, questi manufatti edilizi, prima abbandonati, sono stati via via recuperati dal turismo e dal fenomeno delle seconde case, adottando tecniche in uso nei centri urbani non solo relativamente a materiali e a particolari costruttivi, ma riproducendo, con moduli quasi uguali, tipologie edilizie e forme tipicamente urbane. Questo fenomeno che sfugge alla percezione comune è tutt’ora in atto e viene rilevato con preoccupazione dagli osservatori più attenti. In un tempo in cui il fenomeno turistico ricerca più avidamente elementi di tipicità e di singolarità, si assiste alla spersonalizzazione, alla cancellazione delle tracce autentiche che concorrono al riconoscimento del territorio come “unicum” irripetibile. Si moltiplicano gli interventi di riutilizzo a fini abitativi o commerciali dei grandi spazi di pianura come delle piccole aziende rurali di collina e, con arditi recuperi, si determinano altre forme, nuove e “diverse”, disseminate nel paesaggio, che appaiono sempre più avulse da quest’ultimo. Occorre che in ogni intervento, pur riconoscendo la necessità di altri utilizzi, siano riconosciuti e rispettati i materiali e i caratteri costruttivi originali per non perdere l’identità dei manufatti.