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anViagi 143L’Editoriale

Diverso

Pietro GiovanniniOriginariamente pubblicato nel settembre 2011

Ricordo benissimo: era un giorno di inverno del 1985: stava nevicando e io ero al Centro Computer di Alba. Avevo 15 anni ed ero praticamente tutti i giorni dentro quel negozio un po’ Paese dei Balocchi e un po’ Pozzo dei Desideri per tutti i ragazzini albesi della mia generazione: i videogames, il Commodore 64, lo ZX Spectrum… [e non dimenticare l’Amiga! –NdEdo] Comunque quel giorno aspettavo assieme a sua moglie, Italo Seletto (il proprietario del negozio) che doveva arrivare da Torino, e per la nevicata era in ritardo. Arrivò alla chiusura, posando su un tavolo un imballo piccolino e annunciò serio: “Signori: il Macintosh!”

Il primo Mac era uscito meno di un anno prima negli States, con uno spot orwelliano ormai cult (Apple Macintosh: perché il 1984 non sarà mai come “1984”).

Italo collegò la presa alla corrente e accese il misterioso blocco di plastica con un monitor minuscolo: fu così che mi apparve per la prima volta il faccino sorridente (così antesignano degli emoticon di oggi) e io mi “innamorai” di lui: amore a prima vista, colpo di fulmine!

Da allora la Apple non è più uscita dalla mia vita: i primi Macintosh, poi G3 e iMac, poi iPod, G4, G5 e infine iPhone e iPad… sono più di 25 anni che la “mela” mi fa compagnia e sono a tutti gli effetti un fan (da fanatic) della Apple. Ma perché noi fan abbiamo questa sindrome da appartenenza, questa voglia di essere una casta a parte, quest’idea che gli Apple non sono computer, sono… Mac???

Merito di un uomo, Steve Jobs, che ha il tocco magico e visionario del genio, del guru, del profeta. Un ex-hippy della west-coast con un entusiasmo fanciullesco per stupire e stupirsi davanti agli orizzonti aperti dai primi microprocessori. È da subito mito, con quel leggendario garage dove lui e quel geniaccio di Steve Wozniak assemblarono i componenti del primo Apple, in una California che tra un trip e una tavola da surf sapeva restare cool anche davanti a una macchina elettronica.

La loro filosofia partiva dal “Keep it simple” che potremmo rendere con un piemontesissimo “Fallo a prova di balengo”.

Ecco. I computer Apple sono nati e si sono sviluppati proprio così: semplici, accattivanti, giocosi e umani almeno quanto un IBM era ostico, brutto, difficile e impersonale.

Solo che proprio nel 1985 Jobs era stato estromesso dai soliti giochi di potere. I nuovi manager erano ricchi ma senza idee nuove, mentre l’ascesa di Windows era inarrestabile… insomma mentre io la scoprivo la Apple stava andando verso il fallimento!

Fu dopo undici anni, nel 1996 che –come nelle favole– gli azionisti lo supplicarono di tornare al timone; lui fu spietato: un dollaro di stipendio ma azioni (e quindi dividendi, se mai ne fossero arrivati); fuori tutto il gruppo dirigenziale, fede assoluta nel suo verbo.

Quindi Jobs tira fuori un nuovo sistema operativo (il Mac OS X) e gli iMac, i computer di plastica colorata coi gusti dei lecca-lecca: sono fichissimi e finiscono in metà dei film di Hollywood! Per lanciarli arruola i suoi miti giovanili: Gandhi, Dylan, Picasso, Einstein, Hitchcock etc. con lo slogan “Think Different” e la frase visionaria “solo chi è così pazzo da poter pensare di cambiare il mondo, poi alla fine lo cambia davvero”.

Intanto ha abolito il floppy disc, credendo per primo nella rivoluzione di Internet.

Presto, con l’iPod, avrebbe ucciso anche il compact disc.

Ed è qui che Apple esplode davvero, con la genialata di iTunes: vendere le canzoni in digitale a 99 cent l’una.

Infine il colpo di grazia: come rivoluzionare il mercato individuale più ricco del mondo, quello dei telefoni? Basta di nuovo assemblare (non più in un garage di Cupertino) le varie componenti già esistenti e creare così un apparecchio che telefoni, fotografi, archivi, suoni, navighi… con un’interfaccia touch screen e un design irresistibile.

Ormai l’iPhone è in tasca dei giovani di tutto il mondo.

Oggi Apple è un colosso (scopro con incredulità che “vale di più” di tutte le banche europee) e l’antica purezza inevitabilmente sta sbiadendo. Probabilmente il management di Microsoft si è già spostato in massa nella nuova Mecca; e sicuramente ci sarà ogni giorno meno differenza tra la filosofia Apple e quella di Coca-Cola o McDonalds.

Steve Jobs, l’uomo che in un’intervista al suo ritorno in Apple disse: “uno dei miei modelli di sviluppo è sempre stato Bob Dylan” destando l’ilarità degli analisti finanziari, è da tempo malato di cancro al pancreas. Ha subìto un trapianto di fegato, approfittandone del suo straordinario carisma per invitare tutti a donare gli organi. Magro e affilato, nei suoi maglioni neri sembra sempre più un asceta siriano: non ha perso il tocco magico, né la capacità di creare visioni, ma sa anche lui che ormai “the dream is gone, the song is over”.

Ha lasciato la carica di CEO (che è poi il nostro AD) di Apple lo scorso 24 agosto, con una semplice email a tutti i dipendenti: il giorno dopo tutti i giornali del pianeta gli hanno dedicato le prime pagine.

Perché –in piccolo o in grande– anche lui, il crazy boy che da giovane hippy sognava di cambiare il mondo, alla fine lo ha fatto davvero.

Buon viaggio Steve.