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La leggenda del Castello della Volta

Maurizio RossoOriginariamente pubblicato nel 1997

C’era una volta un castello, un severo fortilizio costruito in pietre e legno su un colle che sovrastava di alcune centinaia di metri il piccolo paese di Barolo. In quel tempo, all’inizio del XIV secolo, il castello era diventato la roccaforte dei Marchesi Falletti, una famiglia che vantava grandi ambizioni di espansione in quella zona selvaggia del Piemonte, costellata di ripide colline, fitti boschi, animali selvatici; percorsa da poche e malsicure strade, civilizzate solo dai numerosi monasteri e dai molto piccoli villaggi.

La Famiglia Falletti aveva da poco concluso un’aspra guerra contro Matteo Visconti e il fedele paese di Barolo aveva prestato a questa vittoria molte risorse e alcune delle sue giovani vite. La popolazione era giunta alla fine della guerra quasi stremata e meritava una ricompensa.

In un giorno afoso di luglio furono organizzati i festeggiamenti per la vittoria. Essi dovevano essere tali, per dimensioni e per sfarzo, da richiamare gente da tutti i paesi limitrofi e da rimanere a lungo nella memoria del luogo. La piazza del paese fu trasformata in un grande banchetto, con immense griglie per la cottura delle carni. Per l’occasione furono sacrificati cinque maiali interi, un bue, numerosi capretti, conigli e galline. Dalla lontana Torino vennero fatti arrivare dei fuochisti speciali capaci di creare degli artifici che di notte illuminavano il cielo con strisce di fuoco colorato.

Contemporaneamente i Falletti organizzarono una festa al castello, più esclusiva ma non meno ambiziosa, alla quale fu invitata la nobiltà di tutta la regione. Già dal mattino i villani videro arrivare le carrozze dei notabili, che a seconda del rango avevano uno o più cavalli, e alcuni addirittura i soldati di scorta. Questi nobili arrivavano dai paesi vicini, come Monforte o Cherasco, ma anche da Alba, da Saluzzo e perfino da Torino. I cavalli erano bardati con i più lussuosi finimenti, i cavalieri sfoggiavano ancora i pettorali dell’armatura che li avevano protetti in battaglia e le spade alla cintola; le dame indossavano per l’occasione lunghi abiti da cerimonia con gonne ampie e gioielli luminosi, ma i villani non le videro in volto perché si nascondevano dietro grandi ventagli scuri.

Questi ospiti arrivarono in così gran numero che non ci fu posto sufficiente dentro il castello e si dovette attrezzare una grande tavolata nell’ampio cortile del castello. Più di cento erano gli invitati, e almeno il doppio tra scudieri e servitori. Ad ogni nuovo arrivo un paggio dava uno squillo di tromba, tanto forte che lo si poteva sentire fin sulla collina di La Morra, poi un altro paggio urlava il nome e il titolo del nuovo arrivato. Appena sistemati i cavalli, due camerieri portavano una brocca d’acqua per lavarsi le mani e il volto dopo il viaggio polveroso e poi subito si brindava con un gran boccale di vino. I brindisi continuarono tutta la sera, fra il gran vociare dei commensali, l’andirivieni dei camerieri, lo sbatter di stoviglie in cucina. Le carni vennero servite su immensi piatti da portata con decorazioni di fichi, prugne, noci e olive, ed ogni portata veniva accolta da un boato di assenso, che si levava dal cortile mentre i calici venivano alzati al cielo ringraziando Dio per la vittoria.

La festa continuò con ebbrezza ed allegria fino al crepuscolo, allorquando certi grandi nuvoloni neri, giunti all’improvviso da sud, oscurarono di colpo il cielo. Dopo pochi minuti la grande calura umida della giornata estiva fu rotta dagli squarci infuocati dei lampi e dai tonfi sordi dei tuoni: un violento temporale si rovesciò su Barolo e sul suo castello, cogliendo tutti di sorpresa. Ci fu improvvisamente trambusto. Le dame correvano ai ripari, sollevando gli strascichi già inzuppati delle vesti; i camerieri si affrettavano a portare all’interno del castello piatti e boccali, mentre i cavalieri aiutavano a spostare i tavoli. Ma il temporale fu così improvviso che prima di aver terminato l’opera, tutti si ritrovarono grondanti di pioggia. gli ospiti si assieparono nella sala da pranzo al pianterreno, ma non essendoci posto per tutti, si allestì una tavolata anche nella sala della guarnigione, al primo piano.

Qui alloggiavano normalmente una dozzina di guardie armate che avevano una sala riunione e varie celle come camere da letto. Il pavimento di legno della sala scricchiolò sotto i passi dei commensali che non avevano trovato posto al piano di sotto. La sala delle guardie aveva un grande camino che venne acceso nonostante la temperatura estiva, per fare asciugare le vesti. Molti uomini si tolsero le giacche di pelle e le appoggiarono vicino al fuoco, mentre le donne, per una parvenza di pudore, preferirono rimanere bagnate. Ma l’inconveniente non aveva fatto che aumentare l’eccitazione, e la festa riprese subito con l’aiuto dei musicanti e di molte brocche di quel vino sapido e robusto che si produceva nella zona. Altri piatti arrivarono dalla cucina, accompagnati da un rullo di tamburo e la festa continuò più allegra e spensierata di prima, poiché la voglia di dimenticare le fatiche della guerra era tanta.

Dalla cucina arrivò una nuova bevanda – un’invenzione francese, si diceva – un vino cotto nelle spezie, che bevuto caldo, dava immediata ebbrezza. Tutti ne bevvero in abbondanza, anche le donne, e presto furono ubriachi. Presero a cantare e a ballare, girando all’impazzata in quel piccolo spazio. Per effetto del camino e dell’alcol, la temperatura aumentò e alcuni uomini, forse per bravata, si tolsero anche i pantaloni bagnati, rimanendo nelle sottovesti. Tutti risero e alcuni del piano di sotto salirono per vedere il motivo di quelle risate. La musica salì di ritmo e le danze proseguirono frenetiche tra urla, risate, gridolini e una continua girandola di persone. I servi portarono altro vino cotto e presto tutti incominciarono a sudare. Sembravano presi da un’eccitazione incontrollabile e cercavano di farsi largo tra la folla per poter ballare. Gli strascichi delle dame venivano continuamente calpestati, finché uno, rimasto impigliato, si lacerò del tutto e cadde, lasciando anche la nobildonna in sottoveste. Un cavaliere le si avvicinò, fra le risate generali e le versò il calice di vino fra i seni: lo scherzo piacque a tal punto che altre dame vollero sottoporsi a quel gioco eccitante. Molte di loro si sciolsero i capelli, per danzare più liberamente, altre furono viste appartarsi con uomini nelle celle delle guardie. Richiamati da tanta eccitazione, altri ospiti salirono dal pian terreno e la calca divenne ancora più fitta. Ormai i corpi si strusciavano nel ballo e spesso cadevano gli uni sugli altri; rialzandosi le dame si ritrovavano seminude. Nulla e nessuno avrebbe più potuto fermare quell’orgia di ubriachi che si strappavano le vesti e si univano carnalmente senza nemmeno riconoscersi. Urla di desiderio e gemiti di piacere si levavano in un trambusto crescente. Ormai tutti gli invitati erano assiepati al primo piano in quella calca lussuriosa e fornicatrice. Il peso di tanta umanità fu tale che il modesto pavimento di legno non resse e sprofondò proprio al centro, con un gran tonfo nel quale si confusero i rumori delle travi spezzate e le urla dei malcapitati.

Il disastro fu incalcolabile: più di cento corpi crollarono gli uni sugli altri fra le macerie del pavimento, e le schegge del legno, schizzate nel camino si incendiarono immediatamente propagando un incendio che trovò subito mille appigli fra travi rotti, tendaggi e vestiti lacerati. Fu il caos totale: i pochi superstiti cercavano di fuggire calpestando gli altri, fra i fumi soffocanti e le urla di strazio. In pochi minuti tutto il castello prese fuoco e nuovi crolli di soffitti e pareti andarono a sommergere i corpi di quei poveri disgraziati. Le fiamme si levarono così alte che furono viste da tutta la Langa. I villani di Barolo e Monforte accorsero e lavorarono tutta la notte per spegnere l’incendio, che fu domato solo verso mezzogiorno del giorno dopo. Lo spettacolo fu sconcertante: nessun superstite fu trovato fra le macerie - tutti morti - come se una mano crudele avesse voluto punirli. In realtà uno solo di loro si era salvato e il suo destino fu di diventare trovatore e, per il resto della sua vita, vagabondare per i paesi della Langa a raccontare la storia di quell’orgia sciagurata, e di come Dio avesse punito i peccatori schiacciandoli sotto il peso di una volta. Ed è grazie a lui che la leggenda è giunta fino a noi e che quel castello, più tardi ricostruito, porta ancora oggi quel nome funesto, Castello della Volta.