Tu sei qui

anViagi 17Faccia a Faccia

Fernanda Pivano, o della Libertà

Pietro GiovanniniOriginariamente pubblicato nel marzo 1999

Quella che leggete è un’intervista realizzata al telefono, essendo Fernanda Pivano molto impegnata (tra l’altro le toccherà pure fare la giurata a Sanremo). È stata raccolta in un pomeriggio di febbraio pieno di sole e, benché si fosse entrambi, per evidenti ragioni, perfettamente fermi, a me è sembrato di fare un piccolo giro del mondo. Ascoltando i ricordi –direi cinematografici– della Pivano si viaggia nel tempo e naturalmente oltreoceano… Ho letto da qualche parte che per i suoi ottant’anni il New Yorker le ha dedicato un lungo articolo, con un grande titolo in italiano “Grazie Nanda!”. Beh, nel suo piccolo anche anViagi vuole ringraziarla per tutto quello che ha fatto nella sua lunga, avventurosa, incredibile vita.

Il secolo che finisce quest’anno si è ormai portato via quasi tutti i suoi protagonisti (e quasi tutti gli amici della Pivano) e ancora una volta a lei tocca il ruolo – mai così ingrato – di cronista, di testimone.

E forse Fernanda Pivano è proprio questo: il più bel testimone della letteratura di questo secolo.

 

anViagi: Mi parli di Pavese, era stato un suo insegnante vero?

Fernanda Pivano: Sì, in prima liceo al D’Azeglio di Torino, dove anche lui aveva studiato: sa aveva poi otto anni in più di me… era stato allievo di Augusto Monti, che era un antifascista e più tardi, quando molti dei suoi allievi vennero arrestati e mandati al confino, Monti si presentò spontaneamente, con una sciarpa rossa al collo, per dire che se arrestavano i suoi allievi, dovevano arrestare anche lui, perché tutto ciò che loro avevano detto o fatto, glielo aveva insegnato lui: fu un gesto molto bello quello di Monti…

AV: E invece Pavese come insegnava?

FP: Beh, lui ci faceva latino e italiano: ma Pavese non sapeva bene il latino: faceva lezione di sintassi con il libro aperto sulle ginocchia… quando però ci parlava della letteratura latina, allora cambiava tutto: ci descriveva Roma, ricostruiva come un grande scittore l’intero scenario… e quella era la sua straordinaria abilità. Non le dico poi quando passava alla letteratura italiana: allora era una cosa da mozzare il fiato. Lei deve pensare che non tutti avevano quest’entusiasmo che avevo io, c’erano delle signorine che erano nate apposta per sposarsi e avere figli… invece c’ero io che avevo altre idee in mente; lui faceva questi grandi affreschi, parlandoti di un autore, che erano straordinari.

Faceva lezione sull’antologia di Momigliano, che era proibita perché Momigliano era ebreo… come impostazione lui era un crociano e infatti un giorno ci ha detto di leggere la letteratura del De Sanctis e i saggi di Croce ed io quando sono arrivata a casa, ho chiesto a mio padre, che aveva una grande biblioteca se li aveva: “Certo che ce li ho, ma perché me li chiedi?”–“Perché il professore mi ha detto di leggerli”. Lui si era incuriosito, anche perché lo conosceva  di nome: infatti Pavese aveva pubblicato dei saggi, delle recensioni sugli americani (Whitman, Anderson, Faulkner) sulla rivista Cultura che mio padre aveva. Queste recensioni erano tutte cose molto strane, perché gli autori non erano accettati dalla cultura ufficiale, direi che erano al limite della legge.

Allora io quel giorno sono arrivata a scuola con quei libri e li ho messi sul banco senza dir niente, ma lui li ha subito visti e riconosciuti; ha guardato quei libri e ha guardato me… da allora ho avuto l’impressione che facesse lezione per me sola. Non perché io ero bella, come dicono i giornali –non ci creda alle balle dei giornali– ma perché aveva visto i libri, e forse avrà pensato che ne valeva la pena.

AV: Lo colpì quindi da un punto di vista intellettuale…

FP: Sì, capivo che lui richiedeva la mia attenzione, ed io ero ben lieta di dargliela, perché quello che diceva ben la valeva.

AV: Ma quanto ha insegnato?

FP: Pochi mesi, perché poi sono venuti ad arrestarlo per portarlo al confino.

AV: Mi parli del metodo critico di Pavese rispetto al suo.

FP: Pavese, come le dicevo, era un crociano, io invece mi sono formata poi alla scuola di Malcolm Cowley, su cui ho scritto anche un breve saggio (in “Amici scrittori” – Mondadori). Pavese usava il metodo di analisi estetica di derivazione crociana. Il mio Cowley ha inventato invece un metodo, legato alla filosofia del pragmatismo, dove non si parlava soltanto dell’Opera, ma la si metteva in rapporto con l’Autore e con la Società in cui viveva l’autore. Penso che Cowley con il suo metodo abbia inventato anche la letteratura americana.

AV: Al di là dell’analisi critica di un’opera –analisi che serve a storicizzarla– non crede che i personaggi (quando riusciti) siano poi perfettamente autonomi, sganciati da ogni valenza storica e per tanto in un certo modo eterni? In altre parole è d’accordo a dire che, come per una canzone, un personaggio è ogni cosa in grado di camminare con le proprie gambe?

FP: Lei si riferisce all’universalità del personaggio; ma questa esiste se il personaggio è sviluppato nella sua intierezza… comunque il personaggio per gli americani resta sempre legato all’Azione: “il personaggio è azione, l’azione è personaggio” diceva Fitzgerald, sintetizzando così le teorie del pragmatismo. Secondo la scuola europea invece il personaggio è Pensiero. Ma sia che sia azione che pensiero, sta il fatto che la sua immortalità dipende dalla profondità con cui lo scrittore è riuscito a far risaltare la sua realtà, che è sempre –anche nell’azione– una realtà spirituale, come nel pensiero. La definizione, che è di Bob Dylan, è validissima, sia per una posizione pragmatista, che per una intellettualista.

AV: Quindi sarebbe meglio ricercare più i personaggi, le atmosfere dei romanzi che non i luoghi precisi, la semplice geografia…

FP: Sì certo, anche perché sennò si fa solo del folklore, della curiosità.

AV: Pavese lei lo ha seguito poi anche dopo, come scrittore?

FP: Sì, non solo. Tornato dal confino mi aveva chiesto, da bravo professore, cosa facevo e io gli avevo detto che avevo chiesto la tesi in letteratura inglese, perché mio nonno era inglese e mi pareva beneducato prendere una tesi sulla sua letteratura. Lui mi disse: “perché non si occupa piuttosto della letteratura americana” (aveva già tradotto “Moby Dick” di Melville ed era un appassionato di Walt Whitman) e mi suggerì proprio di chiedere una tesi su Whitman… Cosa che feci: il professore non lo aveva mai sentito nominare, gli diedi io il libro… mi fece lavorare un anno, poi mi disse “Ma una signorina brava come lei non può occuparsi di argomenti così scabrosi” aveva scoperto che Whitman era omosessuale… allora mi fece cambiare e io scelsi Melville.

Nel frattempo Pavese aveva chiesto a mia mamma se poteva darmi lezioni private di letteratura comparata, una disciplina che non esisteva ancora nelle università… e ogni mattina, quando veniva via dalle private dove insegnava (non aveva più accesso a quelle pubbliche) alle 11 arrivava in corso Vinzaglio dove abitavo e mi faceva queste lezioni straordinarie, purtroppo sempre senza lasciarmi prendere appunti: “Se le cose si capiscono, si ricordano, se no è inutile scriversele”. Con questa teoria non mi ha lasciato mai scrivere una riga: mi incantava parlando di autori di tutto il mondo – io avevo già una formazione internazionale, con questo nonno che parlava nove lingue, libri di tutto il mondo etc. – però certo che lui mi ha proprio dato il colpo di grazia!

Tra i libri che mia aveva dato da leggere per farmi capire la differenza tra letteratura inglese e americana, c’erano “Foglie d’erba” di Whitman, “Addio alle armi” di Hemingway, l’autobiografia di Anderson e “l’Antologia di Spoon River” di Masters… e io avevo aperto questo libricino e mi ero subito innamorata di Spoon River – perché tutti i ragazzini si innamorano di questo libro – e mi ero messa a tradurlo (ma il mio papà era così ricco che mai avevo pensato di dover lavorare, né immaginavo esistesse il mestiere di traduttore): lo avevo tradotto per me.

Ma lui un giorno ha scoperto questo manoscritto, si è messo a ridere e mi ha detto “Ah, vedo che hai capito che differenza c’è tra letteratura inglese e letteratura americana!”. Poi se lo è portato via e lo ha fatto pubblicare. E così mi sono ritrovata a fare la traduttrice.

AV: Qual’è la sua poesia preferita di Spoon River?

FP: Francis Turner, quella che dice “io da bambino non potevo né correre né giocare perché avevo avuto la scarlattina” e finisce con “ma un giorno baciando Mary, con l’anima tra le labbra, l’anima d’improvviso mi volò via”. Sa, quella roba lì per una ragazzina di 19 anni… per forza ci si innamora. Infatti quando –ancora adesso– vengono a farmi firmare le copie, i fidanzatini sono sempre lì con questa storia dell’anima che vola via baciandosi.

AV: È quella da cui De André ha tratto “Un malato di cuore”… invece la mia preferita è quella di Frank Drummer, lo scemo del villaggio…

FP: Ah sì, bella quella del matto… la preferita di De André invece era “Il suonatore Jones”, lo considerava il suo ritratto.

AV: Già, quello che non riesce mai ad occuparsi dei campi, perché tutti sanno che sa suonare e lo chiamano sempre ai balli: l’unico che muore con tanti ricordi e neanche un rimpianto… Mi dia invece un giudizio letterario su Pavese.

FP: Lui è stato uno scrittore –ed un poeta– straordinario, ha inventato la poesia confessionale: si ricordi bene che la poesia confessionale l’ha inventata Pavese e non gli americani, che l’hanno fatta dieci anni dopo. Probabilmente quel tipo di poesia gli è venuta dall’influenza americana, ma l’ha sviluppata prima e in maniera del tutto autonoma.

AV: Rispetto a Pavese, trovo che Beppe Fenoglio abbia una maggiore modernità di scrittura; come Pavese, che era in sintonia e addirittura avanti gli americani nel suo discorso poetico, così Fenoglio, che pure si era scelto un orizzonte geografico molto limitato, aveva una scrittura modernissima. Se dovessi paragonarlo a qualche scrittore americano penserei a Fante o addirittura a Bukowski…”

FP: Bukowski no, è un’altra storia; Fante può darsi perché aveva questo modo intimista, tipico degli anni ‘30 di parlare della realtà, sicché può darsi… io credo però che Fenoglio li conoscesse gli americani, perché era troppo vicino a quel modo di scrivere. Deve pensare che essere antifascisti significava soprattutto non accettare l’epopea nazionalistica fascista e quindi si era portati verso la letteratura d’oltreoceano.

AV: Bukowski però cita Fante come uno dei suoi maestri… quello che intendevo dire è che forse, se Fenoglio fosse vissuto, avrebbe sviluppato una scrittura vicina a quella di Bukowski… mi riferisco anche a temi più crudi o scabrosi, che forse Fenoglio non osava ancora affrontare.

FP: Certo, è probabile che l’avrebbe fatto, chissà?

AV: Le piace quest’idea del Parco Culturale: Monti, Pavese, Fenoglio, Lajolo, Arpino… come mai tutti concentrati in quest’area?

FP: Lei deve pensare che in quel momento il Piemonte, cioè Torino, era un centro culturale importante, grazie soprattutto all’opera di Gualino che era un mecenate, e aveva portato la città ad un livello culturale straordinario, col Teatro di Torino, con i balletti russi, con i primi concerti… poi il fascismo lo ha stroncato, confiscandogli i beni. Sotto il suo influsso erano nate diverse iniziative culturali, per esempio il gruppo dei sei pittori, Menzio etc. Non parliamo poi della gloria di Einaudi, perché Giulio è stato uno dei più grandi editori italiani di tutti i tempi e lo è ancora adesso. Lui è stata veramente la voce dell’antifascismo e noi eravamo raccolti intorno a lui come intorno ad un’icona.

AV: Cos’è per lei l’America oggi?

FP: L’ America oggi continua, così com’è stata fin dalle sue origini, ad essere la speranza del mondo.

AV: È d’accordo nel definire questo secolo, da un punto di vista artistico e culturale, il secolo degli americani?

FP: Sì, anche perché l’America ha avuta la possibilità di assorbire tutti i geni che l’Europa aveva respinto, grazie a quei due malati di mente: li hanno cacciati tutti e in America si è creata questa generazione unica di artisti, poeti, scrittori…

AV: Cosa le piace di meno del Mito Americano?

FP: Naturalmente non mi piace la preponderanza dei reazionari, il tentativo di conservare lo status quo, invece di continuare a evolversi…

AV: Su di una rivista musicale si raccontava di una sua conferenza con degli studenti: “Non abbiate paura: io ho vissuto un’utopia; niente si è realizzato del nostro grande sogno, la non-violenza, la lotta contro la Guerra Atomica, la liberalizzazione delle droghe: eppure rifarei tutto perché ho vissuto un grande periodo storico, ho conosciuto grandi personaggi e soprattutto ho imparato a sbagliare molto”. Se la ricorda?

FP: (ride) È vero: lo dico ancora adesso. Quando si sta dalla parte dei deboli, si sbaglia sempre.

AV: Lei crede alle affinità elettive?

FP: Non so… che cosa intende dire?

AV: Per esempio, io lavoro su un computer Apple, casa creata da Steve Jobs…

FP: Che in gioventù era un hippy della West Coast, noh?

AV: Sì esatto… allora, l’ultima campagna pubblicitaria aveva come slogan “Think different” e come testimonial i grandi del secolo: Ghandi, Einstein, Dylan… Lo spot finiva con una frase “Solo chi pensa di poter cambiare il mondo, alla fine poi lo cambia davvero”

FP: Sì di questo sono sicura anch’io!

AV: Ecco, e infatti l’approccio di questi computer verso l’uomo è completamente diverso dagli altri, è davvero un diverso modo di pensare… in un’intervista poi chiedono a Jobs quali siano i suoi modelli, a chi si ispira nella sue scelte, e lui risponde “uno dei miei modelli è sempre stato Bob Dylan”, che non è precisamente l’immagine del manager di una multinazionale!

FP: (ride) Ma lei mi sta dicendo delle cose per farmi diventare di buon umore…

AV: Ecco cosa intendevo con affinità elettive: tutto sommato, conoscendo i suoi computer, non mi sono stupito che Jobs abbia risposto così… in altre parole forse quello che lei ha definito un fallimento, ha però creato nel medio periodo un patrimonio culturale acquisito, indipendentemente da ragionamenti di carattere politico contingente. Queste sono le affinità elettive a cui mi riferivo… in questo senso forse il suo “sbagliare molto” ha permesso che dopo altri (per dirla come gli Americani) facessero la cosa giusta.

FP: È una bella consolazione.

AV: Lei ha avuto una vita straordinaria, piena di incontri, di occasioni, di persone indimenticabili: è come il suonatore Jones o le è rimasto almeno un rimpianto?

FP: Sì ce l’ho un rimpianto: ho il rimpianto di non essere stata una puttana. Grande rimpianto! Mi sono tagliata via un’enorme fetta di vita per fare la donna per bene!

AV: Bella risposta questa! E qual’è stato il giorno più bello della sua vita?

FP: Ne ho avuti molti di più bei giorni della mia vita: il giorno che Hemingway mi ha mandata a chiamare e mi ha abbracciata; il giorno che Bob Dylan mi ha riconosciuta dopo cinquant’anni –quello è stato il mio Premio Nobel–, il giorno che Jay McInerney mi ha scritto su un libro che sono quella che capisce meglio di tutti i suoi libri… quelli sono stati i più bei giorni della mia vita.

AV: Bene, non voglio abusare oltre della sua cortesia, anche se avrei ancora molte cose da chiederle…

FP: Spero di non averla delusa. Arrivederci, e grazie di occuparsi di Pavese!