Tu sei qui

anViagi 115Faccia a Faccia

Cesare o dell’Identità

Pietro GiovanniniOriginariamente pubblicato nel novembre 2008
Cesare Giaccone

Le generazioni si avvicendano, i tempi cambiano e persino nei mondi più chiusi, antichi e conservatori della italica penisola, come appunto le colline di Langa e Monferrato, arrivano i periodi di transizione. È mia precisa sensazione che questo inizio di secolo (e millennio!) rappresenterà per le nostre colline appunto uno spartiacque tra un mondo romantico, arcaico e ormai ingessato nella iconografia di mille eroiche narrazioni e un nuovo mondo che è ancora difficile descrivere, ma che sicuramente avrà nuove regole, nuove immagini, nuovi miti e – speriamo – anche nuovi eroi.

AV intervista così l’ultimo mohicano dei bei tempi andati, un ristoratore eroico e solitario che poco ama apparire, ma che sicuramente e da tanto tempo c’è. Esserci come presenza, come riferimento, come identità.

Cesare Giaccone alla fine di questo novembre si prenderà una pausa, sospende il suo buen retiro nella ormai celebre casa natale di Albaretto Torre e si dedicherà a “fare scuola” ai giovani cuochi con tanta voglia di imparare ma anche di lavorare duro e con passione per la cucina più che per le guide. La sede (come già scritto su tutti i giornali) sarà in un locus simbolico del Piemonte gastronomico, quella Tenuta di Caccia di Fontanafredda dove il Re incontrava la Bela Rosin.

Fontanafredda è potenzialmente l’immagine migliore che questa regione può dare di sé, coniugando storia e cultura, vino e paesaggio, lavoro e nobiltà: ha appena cambiato proprietà, vedremo se questa volontà di potenza si manifesterà davvero!

Per intanto godiamoci Cesare, in un primo pomeriggio solitario e uggioso, davanti al camino nella sua bella e antica cucina, col cane sotto il tavolo e una ottima bota di Barbaresco sopra (Cà del Baio 2004) a fare da supporto tecnico allo scrivente. Perché Cesare non beve più.

 

anViagi: Allora Cesare due parole sulla tua biografia...

Cesare Giaccone: Mah, io sono nato qui in questa casa, anzi in questa stanza il 22 novembre del 1946, ma allora questo era ancora comune di Lequio Berria… comunque tra pochi giorni avrò 62 anni e sono un langhetto.

Questo locale, l’Osteria dei Cacciatori, con me è alla terza generazione: prima c’era uno zio di mio padre, poi lui e, dopo che è morto nel ‘54, mia mamma Maria Montanaro. Io avevo appena nove anni e tutto volevo fare tranne che il cuoco! Mio padre si chiamava Filippo Giaccone e ha fatto ancora la grande guerra, soldato di cavalleria: era nato nel 1896. Poi per la seconda era troppo vecchio ed è stato qui a casa; e dopo la guerra sono nato io.

aV: Anche tua mamma era di Albaretto?

CG: No. Lei veniva da Serravalle, un paese qui vicino; mentre la mia famiglia paterna ha origine in una frazione di Cerretto, Lesme che però tutti han sempre chiamato Giaccone…

In famiglia siamo in quattro: un fratello Riccardo infermiere, che sta anche lui qui e due sorelle Bruna e Giorgina sposate fuori. Io ero il terzo figlio, il terzino! Pensa che da giovane giocavo a pallone anche bene, e quando mi hanno messo dietro, io gli ho detto: bene, tanto ci sono nato terzino!

Poi mi sono sposato nel 1969 e ho avuto tre figli: Elisa, Filippo e Oscar. Elisa ha sposato un produttore di vino e mi ha anche fatto nonno: oggi ho tre bellissimi nipoti che abitano a La Morra. La più grande fa già l’Enologica…

aV: Ma com’è che poi sei finito a fare il cuoco se da bambino non volevi?

CG: Il mio maestro è stato Aurelio Scavino, un grande cuoco che pochi oggi ricordano, ma che per me è stato fondamentale. Io facevo il foricc (l’apprendista muratore) qui e lui che veniva da queste parti (da Lequio), siccome vedeva che io ero svicio (sveglio) per la mia età, mi aveva preso in simpatia: un giorno mi chiede (visto che mia mamma aveva l’osteria) se sapevo cucinare e se volevo andare a Cogne per una stagione… allora per noi la Val d’Aosta era già un posto esotico e io gli dissi subito: sì certo, io sono bravissimo! Invece non avevo mai preso in mano una padella ma pur di girare il mondo non ci ho pensato due volte… perché a me è sempre piaciuto viaggiare. E così siamo partiti insieme su una 500 che io avevo appena 16 anni. Lui mi ha insegnato tanto …pensa che io tagliavo i pomodori all’incontrario! Lui era uno dei tanti allievi di Giacomo Morra (anche se io al Savona non ho mai lavorato, forse 15 gg una volta…) e mi ha trasmesso la passione per questo lavoro. Poi ho iniziato a girare delle cucine: Pietra Ligure, Bordighera… tanta Liguria e poi Torino. Infine nel ‘70 sono tornato qui e ho iniziato a cucinare a casa mia.

aV: I tuoi figli sono invece sempre stati coinvolti nel tuo lavoro: se non sbaglio uno in sala, Filippo,  e l’altro in cucina, Oscar.

CG: Sì esatto. Adesso Filippo è in giro per il mondo e Oscar si occupa dell’aceto.

aV: Ah giusto! Arriviamo all’aceto: come ti è nata l’idea? Sicuramente dalla qualità scarsissima dell’aceto industriale per tacere di quello balsamico, che è una vera schifezza…

CG: Dell’aceto degli altri non farmi parlare per favore. Io ho sempre fatto l’aceto in casa come tutti in Langa… avevo la mia damigianotta e bon. Chi mi ha fatto intrigare è stato, alla fine degli anni ‘70, il cantiniere di Prunotto (all’epoca dei Colla) che mi raccontava come Prunotto il vecchio fosse un appassionato di aceto e che aveva fatto costruire un’acetaia apposta come dei botalin (piccoli tini) da 50 litri solo per quello. Allora ci ho chiesto di farmene vedere uno, perché li avevano ancora, e alla fine me lo sono comprato! E l’ho pagato carissimo, tipo 300.000 lire di allora! Poi l’ho riempito di Barolo, che invece spesso costava pochissimo (ma non quello di Prunotto, eh!) e me la sono dimenticata in un ciabotin che avevo preso a Lesme. All’epoca io bevevo moltissimo e sicché mi ricordavo tutto… un giorno vado a vedere, perché manco mi ricordavo cosa c’era dentro, e prendo un bicchierino: ‘sta botte aveva tenuto, sai, tenuta ferma e allo scuro, e mi viene su un profumo che non sentivo più da quando ero bambino…

aV: Eh immagino! E invece oggi ci tocca il Balsamico di Modena che non ha niente a che fare con l’Aceto Tradizionale Balsamico di Modena ma ovviamente si confonde benissimo, proprio come l’Olio di Oliva (che le olive manco le vede) si confonde con l’Extravergine di Oliva. Miracoli di una legislazione creativa che fa di tutto per ingannare il consumatore e facilitare le peggio industrie. Il caso più emblematico è poi l’Olio al Tartufo, che è una produzione chimica, di sintesi da laboratorio e che col tartufo vero non ha nulla che fare, ma che, a dispetto di ogni logica, si può comunque chiamare così…

CG: Non farmi parlare degli altri aceti! Invece l’olio è una vergogna: dovrebbero vietarlo. Tutto cos’è “al tartufo” io butterei via tutto. Il tartufo nero, di cui nelle Langhe non si è mai parlato, è buono solo a febbraio… lo scorzone invece per me è da buttar via. Per l’olio di oliva ti devo dire che in Piemonte una volta non c’era una grande cultura sull’olio e allora le mogli (che qui tengono sempre la cassa) compravano quello che costava meno nelle tolle da 10 chili. Io ho sempre usato olio ligure (oggi lo prendo ad Aurigo, nell’entroterra di Imperia) che è quasi un olio medicinale; è raffinato, delicato, per me è perfetto. Ad esempio, se su un minestrone tu metti un olio forte, prepotente, poi quello sa solo più di olio e ti sei perso i mille gusti delle verdure! Poi oggi abbiamo grandi prodotti un po’ in tutta Italia. Pensa che qui nei primi tempi a Natale magari ne regalavo un botticino ai vicini qui del paese. Eh beh, lo sai che poi gli uomini quando bagnavano nell’olio se ne accorgevano subito, capivano che era tutta un’altra cosa! Però se avessero dovuto comprarlo, beh non lo so…

aV: Torniamo al tuo aceto: poi cos’è successo?

CG: Grazie a un mio caro amico, un grande personaggio dell’enologia, Armando Cordero,  quel primo aceto l’ho migliorato molto: l’ho filtrato e come dire… ingentilito ecco. Armando mi ha seguito tanto: all’inizio il mio era un aceto grossolano e lui mi ha dato tanti consigli. La gente poi ha incominciato a chiedermelo… pensa che il primo anno ne ho vendute sei bottiglie! Ed ero felice come una Pasqua. Ed oggi Oscar si sta togliendo grandi soddisfazioni sai: siamo intorno alle 15.000 bottiglie e non è che possiamo crescere ancora molto: è tutto fatto a mano… al max 25.000 ecco.

aV: E torniamo alle materie prime: so che tu sei fissato con l’orto ad esempio…

CG: Sì, infatti la prima cosa che ci ho chiesto giù a Fontanafredda è un grande orto e un pollaio come si deve. Perché i ragazzi devono imparare da lì. Sono cose di base per la cucina. Se non sai riconoscere la qualità della verdura a occhio, non sei un cuoco.

aV: Si gira sempre intorno alla qualità, alla conoscenza delle cose, e al saper fare. In questo senso le colline qui sono cambiate parecchio negli ultimi 40 anni…

CG: Eh sì. Di vino buono ce ne era anche allora, ma poco. Diciamo un dieci per cento; il resto era un pasticcio. Prendi il dolcetto: è un grande vino da pasto ma a farlo buono erano in pochi, gli altri ciapolavano tuti. Io poi non sono mai stato un intenditore di vino: ne bevevo talmente tanto a quei tempi, che puoi capire cosa me ne importava delle degustazioni! Poi sono sempre stato un bastian contrari per cui se mi dicevano che quello era più buono che questo io mi incazzavo perché magari a me piaceva più questo…(ride)

Per andare ad assaggiare i vini andavo prestissimo, alle 6 e mezza di mattina, mi mettevo lì davanti e aspettavo che scendesse il primo. C’era Giovanni Conterno che mi copriva sempre di nomi, ma poi i vini me li faceva assaggiare tutti! A quell’ora sentivo tutti gli aromi.

Forse trent’anni fa erano pochi i produttori bravi, ma avevano davvero un’anima!

Io ai miei nipoti non ci voglio lasciare niente, se c’è qualcosa me lo spiano prima, ma voglio lasciare loro una botte da trenta brenta ciascuno, che se poi faranno il vino si ricorderanno che quelle sono le botti ancora del nonno!

aV: Il mio Barolo preferito è quello di Serralunga.

CG: Buonissimo! Pensa che quando Gaja ha preso l’azienda lì, io volevo vedermi bene quelle vigne, le posizioni… girare un po’ senza nessuno intorno. Allora mi sono presentato al mattino presto in cascina al trattorista per lavorare a giornata. Ci siamo aggiustati e sono andato da manovale due giorni… poi me ne sono andato… eh sì che mi aspettava quello! Poi quando ce l’ho detto ad Angelo (Gaja - NdR) avevamo le lacrime agli occhi. Eh, una volta a me piaceva fare ‘ste cose qui!

aV: Comunque il tuo ristorante è partito subito all’insegna di un discorso di qualità che in Langa esisteva in misura esigua forse, ma era comunque presente a partire da Giacomo Morra e poi dai suoi allievi sparsi un po’ dappertutto. Io quando devo fare l’esempio di un locale che è nato ed è diventato grande a dispetto di quelle leggi di mercato che privilegiano la visibilità e la collocazione, beh faccio sempre il tuo. Albaretto della Torre è, ed era ancora di più 30 anni fa, sperduto sui bricchi. Eppure…

CG: Pensa che negli anni ‘70 i vicini avevano ancora le bestie e la gente arrivava qui e si arrampicava sul loro fienile, prendevano doi balòt (due balle di paglia) e si sedevano nell’aia. Io gli davo un salame e una bottiglia intanto che preparavo da mangiare e quelli erano già contenti come pasque. Nessuno che litigava, diventavano subito tutti amici.

aV: Tu quanto lavori al giorno?

CG: Eh io tanto. Adesso forse anche di più di una volta. Io attacco alle 7.30-8 e finisco alle 2 di notte. Faccio un’ora e mezza di pausa al pomeriggio e poi tiro dritto fino alle 2. Martedì e mercoledì sono chiuso, ma l’orto, la spesa, i vini vanno avanti tutti i giorni (in effetti mentre siamo lì, pur essendo mercoledì è tutto un via vai di consegne, telefonate, ordini, prenotazioni – NdR). Per cui lavoro sette giorni su sette.

aV: Se Brunetta ti mette il tornello, solo di straordinari è rovinato… e dici che lavori di più oggi che non una volta!

CG: Ah sì certo! Adesso ho dovuto sospendere, ma io avrei prenotazioni già per il 2010.

aV: Questa è una cosa importante: perché van bene le guide, le classifiche e i top restaurant che periodicamente i quotidiani ci infliggono, facendo la media delle guide etc. ma per me quello aiuta moltissimo i ristoranti nuovi più che quelli storici. Tu non figuri nella prima colonna dei Top italiani da tempo però non credo che nessuno di quelli lì in pole position abbia poi le prenotazioni fino al 2010…

CG: Questo non lo so. Certo però che per me in Langa ad esempio le stelle non dovrebbero esistere. Esiste piuttosto la cortesia che è il primo piatto…

aV: Orsini dice che il primo piatto è la fame!

CG: (ride) È vero! Ma la cortesia, il sorriso è già la nostra stella. E poi le materie prime. Qui in Alta Langa si deve ritornare alla carne. Noi siamo carnivori e la stiamo perdendo: vitelli, buoi, polli, tutti gli animali di bassa corte: tutto! Prova a trovare ancora un cappone in un’aia qui intorno!

aV: Ecco a Fontanafredda fagli fare anche una bella stalla…

CG: Tu scherzi, ma metteremo due asine solo per fare i cappuccini al mattino col loro latte.

aV: Tu ti ricordi Mario Soldati? Proprio a Fontanafredda, seduto sul letto del Re che chiama “Rosin Rosin, vèn–si

CG: Per me lui è il number one! I suoi racconti erano straordinari. È stato un personaggio della gastronomia che non ce n’è. E poi Nino Bergese con “Mangiare da Re” e Veronelli con “Alla ricerca dei cibi perduti”. Ah che libro quello!

aV: Però “Vino al Vino”…

CG: Soldati non ha mai scritto una ricetta, lui raccontava, ed è questo che ti fa entrare nel mondo della gastronomia. È per questo che io non capisco i punteggi… Lui partiva dalla nebbia, dai dialoghi, dai profumi…ed è questo che poi ti fa viaggiare per andare in un ristorante: l’identità.

aV: Ti sei tolto qualche soddisfazione nella tua vita?

CG: Tutti i giorni. Noi siamo soggetti ad un esame ogni volta che facciamo un piatto e lo portiamo in tavola. E se piace, fa sempre molto piacere.

aV: E quando non piace? Hai mai strapazzato qualcuno o al contrario sei mai stato stroncato?

CG: Beh la critica è sempre utile, ti aiuta a migliorare poi uno fa anche come vuole! Ad es. mi ricordo che il Conte Riccardi una volta mi ha stroncato per i porcini e le pesche insieme. Eh bèn, io me ne sono fregato ma anche quella critica lì mi ha aiutato, perché quello forse è diventato il mio piatto più famoso.

aV:  A me piace molto! Ma il Conte Riccardi non era certo uno da mezze misure… Però il suo motto “Verrà l’Anticristo. E sarà vegetariano ed astemio.” sarebbe da incorniciare in ogni osteria di Langa.

CG: (ride) Infatti io dico sempre che lo ringrazio, perché mi ha portato fortuna!

aV: Quella volta che invece hai sbagliato un piatto, che avevi una serata storta in cui non ne hai imbroccata una?

CG: Un sacco di sere! (ride) No, mi ricordo che una volta ho fatto una serata a Grinzane, saranno 20 anni, c’erano cento persone e io avevo problemi coi fuochi, mi ci sono incazzato… e non è che sia venuta una grande serata! Diciamo che mi sono salvato, ma appena…

aV: E una volta che hai rifiutato un invito?

CG: Con i cavalieri di Malta. Volevano farmi cavaliere, ma bisognava mettersi in smoking… te lo immagini un langhetto con lo smoking? Gli ho detto di lasciar perdere!

aV: E un premio che invece ti ha onorato?

CG: Il Premio alla Carriera che mi ha dato il Sole24Ore. Lì ero davvero emozionato. 

aV: Senti, da un po’ di tempo hai una donna al tuo fianco o sbaglio?

CG: Sì. Margherita. È la mia compagna da 4 anni, anche se la conosco da 16…ha un rifugio in montagna, a quasi 2000 metri e  io andavo lassù per il Raschera. Pensa che mi dice sempre: “Mai sposerò uno come te!”. Una volta stavo sempre in giro, infatti sulla porta c’era scritto “Apro quando arrivo”

aV: Da giovane ne hai fatte più di Bertoldo vero? Da quando hai smesso di bere?

CG: Sono 15 anni che non bevo. Solo caffé e tisane.

aV: Allora ci penserò io a finire la bottiglia. E invece la pittura, come hai iniziato?

CG: Sai la vita è tutta un esame ma io dico che ci vanno anche le lezioni! Io ho sempre dipinto ma per me, senza nessuna tecnica. Poi a fine anni ‘70 sono stato un po’ a Firenze con Gino Paoli e lì a Firenze ho “preso qualche lezione” appunto. Comunque ancora adesso io dipingo per me. Io dipingo per capire gli altri. Poi i quadri piacciono pure e la gente li compra, fanno mostre, vogliono vederli. Bene. Ma io sono un cuoco, non un pittore.

aV: Però a febbraio farai una mostra a Los Angeles…

CG: Sì è vero, a Beverly Hills: me l’ha combinata il mio amico Gino dell’omonima Osteria di Los Angeles. Però sarà una cosa un po’ particolare: porto su 70 magnum di Barolo e Barbaresco di piccoli produttori e al collo gli appendo un mio quadro. Da una parte la loro etichetta, dall’altra io. Poi faremo festa con doppi-magnum, tutti anonimi, e una bagna caoda, che mi sembra la cosa più indicata. Ma se ‘sta cosa si fa il merito principale è di Duccio Vacca: ha fatto tutto lui. Aldo è un grande e la Produttori di Barbaresco una delle migliori cantine di queste colline. La mostra è dall’3 al 9 febbraio. Vuoi venire?

aV: Non mancherò! Scherzi a parte, cos’è per te la cucina?

CG: Eh la cucina…non l’ho mica ancora capito cos’è! Sicuramente identità, perché la cucina la fa la persona, il cuoco a volte neanche. Però resta un mistero, come il vino. Diciamo che ci provi sempre…

aV: Come le donne?

CG: Adesso non più! Comunque io, se cucini per gli altri (mica a casa tua per te), contesto tutto cosa si riscalda o si surgela.

aV: Quindi alla fine sei contento di aver fatto il cuoco, anche se a 9 anni non volevi…

CG: Sono sempre più convinto di aver fatto bene.

aV: Hai qualche rimpianto?

CG: Una volta dovevo uscire con una, ma quella sera sono andato per tartufi… (alza le mani al cielo, scuotendo la testa – NdR)

aV: Quanto contano per te i soldi?

CG: I soldi? Servono certo. Ma non sono l’essenziale, sono una minima parte della vita. Poi per me va bene anche il baratto.

aV: Il giorno più bello della tua vita.

CG: Quando Margherita mi ha detto di sì. Pensa che mi ero fatto insegnare (adesso già non son più capace) a mandare i messaggini da Nicoletta (il maître di sala) e la tempestavo che forse lei non ne poteva più. E poi l’ho conquistata in pizzeria a Mondovì! Avevo saputo che era il suo compleanno e così, quando siamo entrati, di nascosto ci ho detto al pizzaiolo di trovarmi una torta a tutti i costi. Se ne è arrivato con una monodose con una candelina sopra, ma lei è stata felicissima! Pensa: l’ho conquistata in pizzeria!

aV: Tu credi in Dio?

CG: Io sono anarchico, ma credo. Non so in cosa, ma credo.

aV: Un ricordo di Romano Levi?

CG: Lui veniva da me nei ‘70 con Stupino, Giacosa e Veronelli; venivano una volta ogni 15 giorni. Eravamo molto legati: per Oscar alla prima comunione mi aveva fatto un etichetta con la chiesa e le rondini e la scritta “Oggi tutto il mondo è in festa”. Io avrò avuto mille bottiglie sue, ma le ho regalate quasi tutte. E credo di aver fatto bene. Poi c’era Lupano, grande anche lui: gli avevo fatto fare le piastelle per i migliori cuochi d’Europa. Bei ricordi!

aV: Il tuo migliore amico?

CG: Gianni Gallo senza dubbio. Lui è uno dei più bei personaggi di queste colline, attraente, intelligente… un saggio. Grande incisore, uno dei più bravi del mondo. Pensa che quando ho bisogno, quando mi sento solo, ci sono delle volte che lui arriva anche se non l’ho chiamato!

aV: C’è qualcuno a cui devi dire grazie?

CG: Di primo acchito ti direi Veronelli… non voglio citare altri giornalisti (anche se sono moltissimi quelli che mi hanno aiutato) per non fare torto a nessuno. Poi voglio ringraziare i giovani del paese, qui di Albaretto e dell’Alta Langa che mi hanno dato molte volte prova di ammirazione. Mi sostengono e mi vogliono bene. In questi ultimi mesi sono venuti tutti a trovarmi e sono sicuro che col tempo faranno grandi queste colline.

aV: Ma allora qui chiudi per davvero?

CG: Guarda, con me e per adesso, a Fontanafredda sono stati straordinari. Diciamo che qui sospendo. Anche perché io ho sempre cambiato nella mia vita, ma so che qui sono sempre a casa, che qui posso sempre tornare. A casa mia la porta è sempre aperta, e il frigo sempre pieno.

aV: Grazie Cesare. E buona fortuna.