Tu sei qui
Luigi Veronelli, l'Amore e la Libertà
La prima volta che ho incontrato Luigi Veronelli era il 1974, in casa a Treiso con i miei genitori.
Avevo 4 anni e non sapevo assolutamente chi fosse, né perché i miei ci tenessero tanto a quella visita.
Me lo ricordo bene anche dopo trent’anni: eravamo in salone (non so in che stagione, forse settembre, forse inverno) io ero seduto su una delle poltrone bianche da cui quasi non riuscivo a scendere e mi aspettavo di vedere arrivare un uomo grande e grosso con la barba e chissà quali magie… invece vidi uno spilungone, magro, con delle orecchie enormi e degli occhiali assurdi: portava un maglione attillato anni ‘70 a righe orizzontali sul blu e sembrava uscito dal Diario Vitt!
Mi puntò un dito (che mi sembrò anche quello lunghissimo) e disse “Tu quindi sei Pietro!”, io lì per lì pensai “Oddio, ma allora e qui per me! E cosa vuole da me?!” ma lui sorrideva amichevole e la paura mi passò subito –aveva un gran bel sorriso Gino– risposi solo “Sì” e lui disse qualcosa tipo “Sai, io sono un grande amico di tuo papà”. Finì lì, anche se il suo nome lo sentii molte altre volte negli anni a venire (mio padre, Enrico Giovannini Moresco, ha prodotto Barbaresco del Pajoré dal 1967 al 1980)…Gino si era innamorato del suo Barbaresco 1971, come un altro –per me– “tipo strano”: un americano, Wasserman, che girava sempre per casa anche lui.
Il primo bicchiere di Barbaresco io lo bevvi solo 4 anni dopo, in cucina una sera che io e mia sorella chiedemmo di assaggiare questo vino di cui tutti parlavano e che quindi ci sembrava ormai una cosa molto importante…
La seconda volta che ho visto Veronelli è stato 24 anni dopo, a Bergamo, a casa sua: aveva saputo che mi ero “inventato” una rivista di turismo (anViagi appunto) sul Piemonte e voleva incontrarmi: passai il pomeriggio a casa sua, nel suo ufficio. Per prima cosa mi prese tutte e due le mani dall’altro lato della scrivania e guardandomi negli occhi – Gino ti guardava sempre negli occhi – disse “Parlami di tuo padre”. Poi senza nemmeno aver letto una riga della rivista mi chiese di collaborare con lui, che se volevo scrivere dei pezzi non c’era nessun problema etc. …ovviamente poi si sarebbe letto la mia rivista ma così sui due piedi lui già mi avrebbe “adottato”: aveva forse un senso troppo alto della amicizia e quella sua offerta immediata era più un modo per dirmi “non mi sono dimenticato di voi” che una proposta di lavoro.
Veronelli era fatto così: impulsivo, generosissimo e sincero.
L’ultima volta che l’ho visto eravamo ad Asti, a settembre: non sono andato a salutarlo perché era sommerso di gente, che non riusciva spesso più a riconoscere (ormai era quasi cieco) e non volevo che gli succedesse anche con me!
Questa oggi è una delle cose che più rimpiango.
Venerdì sera è morto il mio gatto, malato al fegato, proprio come Gino, che se ne è andato lunedì.
E proprio a Luigi Veronelli, lui che ha passato la vita a “comunicare”, è toccato di morire durante uno sciopero dei giornali.
Martedì sera io e mio padre ci siamo stappati una bottiglia di quel ’71 che gli piaceva tanto: era ancora perfetto (puro-armonico-razionale-quindi-anarchico) e ce la siamo bevuta noi tre.
Solo tre anni fa, in un teatro strapieno per festeggiare le sue 75 vendemmie, a Sergio Miravalle che (seguendo il questionario di Proust) gli aveva chiesto “Come vorrebbe morire?”, aveva risposto a bruciapelo: “In piedi”. Purtroppo medici e malattie spesso ci impediscono di andarcene con la dignità con cui si è vissuto… perché sempre Veronelli ha vissuto stand upright e be strong, sempre in piedi, dritto e forte come un guerriero, come ha detto benissimo suo nipote Zeno mercoledì a Bergamo, davanti a produttori e ristoratori con gli occhi rossi.
A me intanto tornava in mente De André e il fatto che al funerale di Proudhon (quello di “sono io il mio governo”) nel 1865 ci fosse tutta Parigi. Anche qui, il gonfalone di Bergamo sventolava accanto alle bandiere nere e rosse dell’Anarchia mentre una banda di fiati intonava “Addio Lugano bella” e ragazzi dei centri sociali stavano gomito a gomito a distinti uomini in doppiopetto grigio.
Tutti per salutare questo grande Laico, Anarchico e Libertario, che però sarebbe piaciuto anche a Gesù, visto che odiava l’arroganza del potere e sapeva battersi –sempre in piedi– solo contro i forti, i potenti, gli intoccabili… per cui, proprio come De André, Veronelli provava una simpatia naturale verso chi –dalla vita– non aveva magari mai avuto neanche una possibilità.
Spero che abbia avuto ancora modo di sapere –e gioire– per i 200.000 ucraini che con i fiori e senza violenza a Kiev hanno saputo per una volta fermare il Potere e le sue truffe.
A nessuno meglio di lui sta cucito addosso il motto di Sándor Petöfi:
“Due cose sole nella mia vita: Amore e Libertà. Per Amore darò tutta la vita. Ma per la Libertà tutto il mio Amore.”
E di Amore Gino ne ha lasciato tanto, insieme con l’Esempio e il Ricordo: in piedi, la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero: non al denaro, non all’amore né al cielo, proprio come il suonatore Jones.
Nel mio Paradiso non ci sono imbecilli che prendono il caffé sulle nuvole e neanche angeli e santi e nemmeno bilance e giudizi.
Nel mio Paradiso ci sono la signora Libertà e la signorina Fantasia che accompagnano De André a Marassi dove il Genoa vince lo scudetto.
Nel mio Paradiso c’è la signora Anarchia che oggi cammina la vigna.
Nel mio Paradiso c’è anche Gino Veronelli con gli occhiali spessi e il maglione blu, lì dietro casa, nella vigna del Pajoré: è in piedi e ha in braccio il mio gatto.