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Il Re e la cortigiana
La tenuta di caccia sabauda di Fontanafredda legò il suo nome, nella seconda metà del secolo scorso, a quello di Rosa Vercellana, favorita del Re Vittorio Emanuele II e madre di due dei suoi numerosi figli, meglio nota con il soprannome di “bela Rosin”, a sottolineare la sua estrazione popolana ed il favore con cui venne accolta dai sudditi piemontesi (meno dall’aristocrazia di corte...). Rosa era infatti nata a Nizza Marittima nel 1833, originaria di Moncalvo e figlia di un soldato sabaudo: secondo la tradizione popolare Vittorio Emanuele la conobbe nel 1847, quando la ragazza, appena quattordicenne, riuscì ad ottenere un’udienza per perorare una causa familiare; manco a dirlo il futuro Re concesse soddisfazione alla bella giovane che, da quel giorno, non fu persa di vista dall’occhio attento del Principe ereditario. Divenuto Re due anni più tardi, Vittorio Emanuele la chiamò accanto a sè dapprima a Moncalieri ed in seguito, per evitare beghe di corte, a Pollenzo. Ma anche qui sorsero incompatibilità, poiché la tenuta di Pollenzo era spessa deputata a sede di incontri diplomatici, così si pensò di costruire una nuova villa nel vicino fondo di caccia di Fontanafredda. Le fasi di costruzione furono molto rapide e gli arredamenti, gli affreschi e le tappezzerie furono installati seguendo il gusto personale della “bela Rosin”, nel contempo diventata Contessa di Mirafiori e Fontanafredda, nonchè madre di Maria Vittoria ed Emanuele Alberto, figli cosiddetti “della mano sinistra” del sovrano. Il Re la sposò morganaticamente solo nel 1869
A Fontanafredda i due vissero in un ambiente finalmente disteso, accolti con calore e simpatia dalla gente del posto che vedeva come una benedizione la magnanima presenza del Re e della sua favorita; i ragazzini aspettavano l’uscita in carrozza della Contessa per poter saltare di nascosto sul pianale delle ruote posteriori: immancabilmente la Signora si liberava dei clandestini lanciando dal finestrino una generosa manciata di monete di rame.
A Fontanafredda Rosa iniziò una serie di ristrutturazioni del vecchio borgo, proseguite in seguito dal figlio Emanuele Alberto. A cominciare dal 1876 si puntò ad industrializzare la produzione agricola ed in particolare vinicola: Emanuele fece dissodare i terreni incolti e piantare estesi vigneti, “i meglio pettinati dell’intera regione”; si perforò il tufo della collina per aprire enormi cantine d’invecchiamento, creando la “Casa Vinicola Emanuele di Mirafiore”, azienda che conquistò subito grande rinomanza.
La “bela Rosin” seguì il Re a Firenze quando la capitale fu spostata da Torino, e infine a Roma; non apparì mai in occasioni ufficiali, né si intromise negli affari della Casa Reale e alla morte del “Padre della Patria” si ritirò a Sommariva Perno dove da allora portò il lutto. Rosa Vercellana morì nel 1885, tra l’indifferenza dell’aristocrazia e la costernazione dei borghigiani che vedevano in lei una loro pari, assurta a nobiltà senza perdere la disponibilità e la generosità verso il “suo” popolino.
Di tutte le donne che il Re aveva conquistato (e le cronache dell’epoca dicono non fossero poche) Rosa fu l’unica a lui sempre vicina, e probabilmente nell’intimità della loro relazione conobbe una persona molto diversa da quella che ci è stata tramandata dalla storiografia ufficiale. Pare che per trent’anni i due tenessero una fitta corrispondenza perlopiù scritta in piemontese (dai Savoia abitualmente usato in privato) da cui Vittorio non si separava mai. Inutile dire che dopo la sua morte tutte le carte sono state fatte bruciare. Una storia vissuta nell’ombra quindi, sempre in bilico tra Amore e Ragion di Stato, ma sicuramente autentica e felice, diversamente da quelle di tante Regine sposate sì ufficialmente, ma sempre all’uomo sbagliato.