Tu sei qui
Le colline sono tutte bianche: è nevicato già due volte e ormai è inverno.
La mia mattina brilla di blu e bianco: una luce abbagliante nell’aria rarefatta dal vento.
Il vento ti taglia la pelle e morde come esci di casa.
Arrivo al Pavaglione e mi faccio a piedi, nella neve di polvere, il viottolo che sale alla cascina; due cani guaiscono fiduciosi: il più piccolo, un tabui, esce dalla gabbia scodinzolando e facendo morire di invidia il lupacchiotto imprigionato che può offrirmi solo il muso tra le maglie della rete. Oltre c’è una staccionata con asinelli imperturbabili, e nella neve che si perde giù nel bosco di San Bovo si possono leggere tante impronte diverse: volpe, cinghiale, tasso, lepre, capriolo… Cerco di immaginarmi la vita qui oltre cent’anni fa, quando venne costruita l’ultima cascina, ma non ci riesco. Non ho più i riferimenti: nessun motore, nessuna luce, niente acqua, niente radio… solo bestie, bosco e cielo.
Gli odori oggi sono diversi, anestetizzati; i rumori quotidiani si sono estinti come i mestieri.
Il Pavaglione è una foto in bianco e nero che appartiene al passato.
Il sale della terra… ormai me lo sono perso.
È mezzogiorno, sono ad Arguello sotto la chiesa di San Frontiniano, vecchia di novecento anni. Le case di pietra della borgata sono sfondate, il tetto ha ceduto come gli impiantiti di legno dei pavimenti: vedo camini appesi al cielo, avanzi di porte, armadi a muro. In faccia ai ruderi la sternìa che sale al paese è ancora buona: corre ripida come una creuza tra i muri di pietra e la chiesetta. Il campanile brilla al sole, e io inevitabilmente ripenso a Roberto Rinaldi che al circolo del paese, raccontava di queste colline, tra una ricetta straordinaria e l’altra. Storie di sangue, poesie, aneddoti e deduzioni sui langhetti: miserie e nobiltà di questi “liguri senza il mare” che manco i romani riuscirono ad assimilare, e che oggi invece si sciolgono come la neve sotto le mie scarpe.
Anche Rinaldi l’ho perso.
Il mio amico Giulio Morra scatta foto del “mondo sotto i nostri piedi”: fossili di sigarette, incisioni di foglie, geometrie di impronte, tombini, lattine. Mi suonano come un epitaffio delle nostre città, ormai tutte uguali, da Torino a Tokio, supermercato per supermercato, griffe per griffe, catena per catena. Il vecchio mondo non lo vuole più nessuno, se non per un weekend di charme e tartufo, da passare però in albergo 5 stelle, perché almeno c’è il centro benessere. La Langa la si guarda dai finestrini dei fuoristrada, come a un safari in una riserva indiana.
Sottovuoto, per non perderla.
Arrivo a Borgomale che è ora di pranzo passata, vado dai Pace, che reggono l’osteria/bar da metà ottocento, ma hanno “le carte” solo dal 1911, perché l’archivio vecchio è bruciato. Il prossimo anno compiranno ufficialmente almeno cent’anni… “cosa vuole che festeggiamo ormai” mi risponde con brio la signora Pace, sbucando dalla cucina “siamo vecchi noi… a mio marito gli han tagliato un piede per il diabete… può darsi che i giovani loro ne abbiano voglia, chissà”. Intanto arriva la nipotina, con lo zaino e il giubbotto: ha diciassette anni e prende due pullman per andare a scuola a Neive, all’Arte Bianca. La signora invece tiene i bigodini in testa e conserva un umorismo che filtra tra le pieghe strette del dialetto. Qui il piemontese resta un codice di riconoscimento reciproco, un tacito lasciapassare per darti quella confidenza che il forestiero non avrà mai. Mi fa un panino con acciughe e bagnèt vert che resusciterebbe un morto.
Anche ad Arguello, tra le case col tetto sfondato, c’era un’osteria. Anche lì la gente avrà brindato, riso, perso a carte, bestemmiato, dormito… e i ragazzi si saranno innamorati sotto quella chiesetta di pietra, sognando magari di partire per l’America a fare fortuna. Anche lassù al Pavaglione il povero Agostino sognava di scappare con Mario Bernasca.
Invece oggi è l’America che ci è arrivata in Langa.
Il Gusto è uscito dalla cucina per trasferirsi lentamente in Salone, l’Osteria te la trovi con molta praticità nell’Outlet Piemonte che mangia in inglese. Le stelle sono scese dalle notti buie dei cartoné per posarsi direttamente sui ristoranti ed esaudire così i desideri dei loro ricchi proprietari, in un’eterna notte di San Lorenzo, anzi, di Saint Laurent, alla francese! I grandi produttori di vino si fanno il giro del mondo ogni anno per vendere Barolo a Shangai, Barbaresco a Singapore, Barbera a San Paolo, Moscato a Helsinki ma non trovano più il tempo di berne un bicchiere tra amici all’osto! Perché il vino sarebbe anche un piacere dopotutto… oppure è solo più trebicchieri, punteggi, giudizi, insomma business?
Ha ragione il Dalai Lama: questi sono tempi in cui c’è troppo in vetrina e più niente nelle case.
A volte nemmeno più il tetto.
E mi manca Roberto Rinaldi, e mi manca Romano Levi, e mi manca Gino Veronelli.
Mi manca il sale della terra.
E non so se saranno ancora tempi per anViagi.
A volte mi sembra tutto troppo caro per le mie tasche.
Le Langhe non si perdono. Le Langhe non si perdono?
Perdono? Perdòno.
Anzi, sorry.