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“Negli anni terribili della Ezovscina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle Croci, le carceri di Leningrado.
Una volta qualcuno mi riconobbe.
Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio: – Ma questo lei può descriverlo?
E io dissi: – Posso.
Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.”
Anna Achmatova (da Requiem)
A quasi vent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica, per dare un giudizio sul regime comunista che – da Lenin a Chernenko – ha afflitto il popolo russo basterebbe forse leggere le biografie dei poeti. In particolare, nella lunga lista di fucilati, deportati, reclusi, esiliati e isolati spicca la storia dei due più grandi poeti del ‘900 russo: Anna Achmatova e Osip Mandel’štam.
Prologo
Nella belle epoque, a San Pietroburgo (allora Capitale dell’Impero Russo) c’era un locale –il Cane Randagio– che raccoglieva il meglio delle avanguardie letterarie. Regina indiscussa di questo salotto alternativo ma molto mondano divenne in breve Anna Andreevna Gorenko, in arte Achmatova. Bella ma non bellissima, con l’eterna frangetta e gli abiti stretti che la facevano sembrare ancora più magra, diafana e solenne, si presentò un giorno attrezzata di tutto punto, e non somigliò mai a nessuno (Josif Brodskij). I suoi primi libri di poesie (Sera e Rosario) divennero immediatamente famosissimi in tutta la Russia mentre lei e il marito Nikolaj Gumilëv (poeta, esploratore e archeologo) viaggiavano per l’Europa: a Parigi incontrarono Modigliani, poi vennero in Italia: a Genova, Pisa e Firenze. Infine per tutti giunse il 1914.
Invecchiammo di cent’anni, e accadde in un’ora soltanto.
La Russia entrò in guerra, e dalla guerra passò alla rivoluzione, quindi alla guerra civile, alla carestia, allo stato di polizia: in pochi anni tutto cambiò.
All’indice
Poverissima, disoccupata, reietta, condannata all’isolamento e al silenzio, tormentata dalla tisi, dal freddo e dalla miocardite… Anna Achmatova visse così 33 dei suoi 77 anni (dal 1922 al 1955): le guardie rosse di Dzerzinskij fucilarono Gumilëv, Ezov le arrestò il figlio Lev (ben 4 volte: in tutto Lev passò 18 anni nei gulag), Beria spedì a morire nella Vorkuta il suo terzo marito, Nikolaj Punin. Dal regime venne ripescata solo durante la Grande Guerra Patriottica, quando si ricorse ad ogni mezzo per resistere all’invasione nazista (Stalin autorizzò perfino la gente a pregare). Ma già nel ‘46, Anna Achmatova venne bollata da Zdanov come monaca e puttana e messa quindi all’indice: fu subito espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici e condannata di nuovo al silenzio.
Per le persecuzioni, i sequestri, le continue vessazioni a cui fu sottoposta dalla polizia politica, e per il terrore che le sue violazioni si riperquotessero sulla sorte del figlio, Achmatova ritornò all’epoca pre-gutenberghiana: per anni scrisse solo su foglietti volanti, leggendo poi bisbigliando alle amiche o a se stessa, per mandare a memoria e quindi subito dopo bruciare il foglietto. In questo modo salvò la sua poesia.
Per salvare la vita al figlio invece nel ‘50 scrisse (unica concessione ai suoi persecutori) le 15 liriche di Gloria alla Pace in lode di Stalin, talmente stucchevoli e adulatorie da suonare platealmente false.
Io sono la vostra voce
Più volte Achmatova colse il valore e l’importanza del proprio lavoro, come voce e coscienza della Nazione diventando così, nel corso del proprio calvario esistenziale, l’immagine sacrificale dell’intera nazione russa.
Per questo Marina Cvetaeva, l’altra grande e sfortunata Musa della poesia russa, che l’adorava, la definì Anna di tutte le Russie, non più un titolo adulatorio e rituale per una Zarina impossibile ma vivida testimonianza vivente (e narrante) delle sofferenze del proprio popolo.
Tregua e dintorni
Durante la Tregua – ovvero i primi anni dopo la morte di Stalin, quando Chrušchëv ne denunciò pubblicamente gli eccessi, scaricandosi così la coscienza – le fu permesso di pubblicare Poema senza Eroe, omaggio epico alla sua città durante l’assedio nazista, a cui attese per 17 anni: malgrado tutto e dopo oltre trent’anni, era ancora famosissima in tutta la Russia.
Accanto alle amiche di sempre, si coltivò così una piccola corte di poeti dissidenti (parola che già spiega quanto il vento fosse cambiato), tra cui il futuro Premio Nobel Josif Brodskij. Per i suoi 75 anni uscì una grande raccolta di versi (che vendette un milione e mezzo di copie) e le fu perfino permesso di venire in Italia a ricevere il Premio Taormina e poi l’anno dopo a Oxford per l’Honoris Causa. In Inghilterra le fece di certo effetto (ma quale?) incontrare molti dei suoi sodali giovanili, quelli che dopo la Rivoluzione scelsero l’esilio (No, non sotto un cielo straniero, non al riparo di ali straniere, io ero allora col mio popolo là dove, per sventura, il mio popolo era) ed ebbero così vite affatto lontane dalla sua. Rivide soprattutto il suo ultimo amore Isaiah Berlin (che le ispirò il ciclo La rosa di macchia fiorisce), incontrato nel 1946 per sole due volte a Leningrado. L’anno successivo, ormai acclamata anche in patria come il più grande poeta russo del ‘900, si spense a Mosca; Anna Achmatova riposa a Komarovo, vicino a San Pietroburgo.
Requiem, ciclo clandestino scritto durante la prima prigionia del figlio, resta la più alta testimonianza di poesia civile contro il sistema repressivo sovietico.
Osip Mandel’štam, fu il migliore amico della Achmatova, esponente come lei dell’Acmeismo (fondato proprio da Gumilëv), ed era, all’alba della Rivoluzione, uno dei più promettenti poeti russi ma si ritrovò subito in disparte dopo. Troppo ingenuo e naif per adattarsi alle nuove parole d’ordine e soprattutto non abituato a servilismi ed opportunismi, divenne con la moglie Nadezda un ebreo errante in giro per l’immenso Impero (No, mai di nessuno fui contemporaneo/ non so che farmene di tanto onore) anch’egli reietto, disoccupato e indigente.
In questi vagabondaggi passò spesso anche in Ucraina e dopo aver assistito agli orrori della deportazione dei Kulaki, i ricchi contadini ucraini, e alla immane tragedia della carestia forzata (l’Ucraina stima l’Holodomor, il genocidio per fame pianificato da Stalin, in 10 milioni di morti) per un’urgenza interiore incontrollabile ecco che il mite, innocuo Mandel’štam scrive i celebri beffardi e feroci versi sul montanaro del Cremlino, lo sbaraglia-mugicchi, l’Osseta dalla spalle larghe. Li legge a poche persone una volta soltanto ma è quanto basta.
Nelle memorie drammatiche e irrinunciabili di sua moglie Nadezda (L’epoca e i lupi), messe giù di getto non appena le fu possibile – e cioè oltre 30 anni dopo – il calvario dei Mandel’štam si srotola di pagina in pagina, di anno in anno (frutto dell’ordine staliniano isolare ma conservare) attraverso una prosa distaccata che serba però dall’inizio alla fine il più forte valore civile, e che soprattutto non smette mai di sperare nel ritorno della Russia all’umanesimo. Umanesimo che, pur scomparso così a lungo nello stato sovietico, sopravvive imprevisto e imprevedibile per esempio nei samizdat clandestini, cioè nella Poesia come necessità primaria dell’uomo, più forte della storia e delle dittature, specie in un paese dove è stata (e forse continua ad essere) fenomeno di massa.
E siccome è vero che la Poesia precede sempre la Prosa, Nadezda Mandel’štam, per trent’anni amorevole custode vivente dei versi del marito (cioè nella stessa epoca pre-gutenberghiana della Achamatova…) venne colpita così a fondo dalla grande poesia di Osip al punto da sentirsi costretta alla prosa (Auden) non appena le fu consentito.
La stessa urgenza che spinse Lidja Cukovskaja, la futura segretaria della Achamtova, a scrivere di getto Sof’ja Petrovna nel 1939 a seguito della sua drammatica esperienza alle Croci, il carcere di Leningrado. Il marito, un fisico, in quanto omonimo di Trotskij (ovvero Bronštejn) era stato condannato a dieci anni di lavoro forzato senza diritto alla corrispondenza (una formula vuota che in realtà indicava l’immediata condanna a morte); infatti lo fucilarono il giorno stesso della sentenza, nel 1938… la moglie lo seppe solo nel 1957, quando venne riabilitato. E il romanzo si salvò per caso: fu affidato dall’Achmatova a sconosciuti che lo custodirono a rischio della vita. Lidja divenne amica di Anna Andreevna mentre entrambe condividevano le inutili file davanti alle Croci. In seguito la aiutò e la assistette per anni (come Anna fece con Nadezda), diventando così la sua assistente/biografa e un’altra memoria vivente per i suoi versi.
Epilogo
Achmatova, Cukovskaja, Mandel’štam vissero come eremite per lustri, sperando che l’occhio del potere, impegnato com’era ogni giorno a sterminare migliaia di sabotatori e controrivoluzionari, semplicemente si scordasse di loro. Ogni tanto qualcuno dei loro amici spariva, si uccideva, finiva in manicomio. Morì Bulgakov, morì Pasternak, morì Babel'...
Loro, nell’ombra, ripeterono ed impararono a memoria i versi, le poesie, interi libri.
Libri che misero su carta solo durante la Tregua, ma quei testi circolarono sempre clandestini in Russia (i famosi samizdat appunto) mentre divennero subito famosi all’estero: Requiem, L’Epoca e i Lupi, Sof’ja Petrovna, il Dottor Zivago, il Maestro e Margherita... un’impressionante serie di capolavori che rimasero ufficialmente ignoti proprio alla società che li aveva generati.
Il Maestro e Margherita del povero Bulgakov venne pubblicato in Russia solo nel 1967.
Gli altri dovettero attendere Gorbachëv… Requiem uscì nel 1987 (solo 50 anni dopo!), Sof’ja Petrovna e il Dottor Zivago nel 1988.
Malgrado le loro biografie (ovvero mogli di nemici del popolo, parassite, artiste degenerate, etc. etc.) Anna Achmatova, Lidja Cukovskaja e Nadezda Mandel’štam morirono nei loro letti, cosa affatto strana per un russo della loro generazione (J. Brodskij).
Osip Mandel’štam, forse il più fine traduttore russo di Dante, si spense su un tavolaccio in mezzo ai malati di tifo nel gulag di transito di Vtoraja Rechka nel dicembre del 1938, prima di raggiungere Magadan; gli amici e sua moglie concordarono che fu un bene. Ma anche da morto non cessò di ispirare altra arte, come per “I racconti della Kolima” di Varlam Salamov (che sono semplicemente irrinunciabili).
Mariva Cvetaeva, la più moderna e ardita di quel pugno di poeti davvero maudits, stanca di mendicare, senza casa, senza cibo, si impiccò nel 1941 dopo che anche il marito e la figlia vennero arrestati e deportati: finì in una fossa comune ad Elabuga. (Non conosco un destino più tragico di quello di Marina Cvetaeva –N. Mandel’štam)
Boris Pasternak, immenso poeta passato alla storia per un solo romanzo, morì 3 anni dopo aver rifiutato il Premio Nobel per Il Dottor Zivago, comunque perseguitato e in povertà. Il figlio ha potuto ritirare quel premio appena 31 anni dopo, nel 1989.
Josif Brodskij, il pupillo di Anna Achmatova, dopo un memorabile processo (Giudice: Qual è la tua professione? –Brodskij: Traduttore e poeta. –Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti? –Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?) e una condanna a cinque anni di lavori forzati per parassitismo, venne espulso dall’URSS nel 1972.
Post scriptum
Come molti dei grandi poeti, Achmatova e Mandel’štam ebbero il dono della preveggenza e la consapevolezza di non essere uguali a nessuno (mai di nessuno io fui contemporaneo) e, malgrado tutte le sofferenze e le privazioni, nella loro vita vissero di pura arte: parlavano 4-5 lingue (per anni si mantennero solo con traduzioni), scrissero saggi, commenti, critiche e incessantemente poesia. Su tutto misero Dante, Shakespeare e il demiurgo della poesia russa, Puškin.
Di lui un giorno Achamatova scrisse con la solita aura profetica: “mano a mano che gli anni passavano, l’avversario di Puškin che lo uccise in duello, i nobili, le cortigiane, tutta la corte dello Zar e i piccoli meschini uomini di potere sbiadirono per diventare soltanto i contemporanei di Puškin ed infine essere dimenticati.”
Ancora una volta fu Cassandra di se stessa, perché già oggi davvero pochi ricordano Kirov, Zdanov, Ezov, Andreev e i mille piccoli meschini burocrati che si accanirono su di lei: sono già solo più suoi anonimi contemporanei e presto scompariranno del tutto.
Ma forse i versi più profetici sono quelli scritti durante i 900 giorni dell’assedio nazista di Leningrado, dove morirono oltre un milione di civili
“No il coraggio non ci abbandonerà.
Non ci spaventa cadere sotto il piombo,
non ci duole restare senza tetto,
ma noi ti salveremo, favella russa,
alta parola russa.
Ti recheremo pura e libera,
e ti daremo ai nipoti,
ti salveremo dai ceppi
per sempre!”
Perché davvero grazie ad Anna Achmatova, a Osip Mandel’štam, a Marina Cvetaeva, a Boris Pasternak la più Alta Parola Russa è stata salvata dalla prigionia, per essere donata a noi nipoti per sempre.
Il nostro sacro mestiere esiste da millenni.
Con lui al mondo non occorre luce:
ma nessun poeta ha detto ancora
che la saggezza non esiste,
che non esiste la vecchiaia,
e forse nemmeno la morte.
A San Pietroburgo davanti alle Croci oggi c’è ancora Anna Achmatova, trecentesima in fila: porta sempre la celebre frangetta giovanile e un vestito semplice che la rende ancora più fragile e magra.
Achmatova ha un braccio alzato davanti al collo e guarda indietro.
Mi piace pensare che guardi verso di noi.