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Addio a Emanuele Luzzati

Pietro GiovanniniOriginariamente pubblicato nel marzo 2007

 

È morto la sera del 26 gennaio, a poche ore dal Giorno della Memoria, quando l’Europa si sarebbe fermata a ricordare i milioni di ebrei uccisi dalla lucida, metodica follia nazista. 

Avrebbe dovuto ricevere il Grifo d’Oro dalla sua città, Genova, e parlare ai ragazzi delle scuole di come si diventa un artista ebreo.

Invece il suo cuore, affaticato da 85 anni di vita bevuta d’un fiato, si è fermato.

Lele Luzzati, sfuggito ancora ragazzo alle leggi razziali (riparando a Losanna) è stato uno dei più grandi scenografi di questa nostra Europa.

Era un artista unico: scenografo, illustratore, decoratore, costumista, ma più che tutto Creatore di Sogni… i sogni che si fanno da bambini, quelli tutti colorati, dove ogni cosa è possibile e non esiste il male. Aveva conservato intatta la curiosità dell’infanzia, lo stupore naif, l’allegria per ogni novità, la gioia del colore, l’amore per la natura.

Ma Emanuele Luzzati era anche un ebreo e, nel caso se lo fosse dimenticato, avevano provveduto a ricordarglielo compagni di scuola e insegnanti, autorità e carabinieri nel 1938. Un ebreo di una città di mare (che infatti non lascerà mai più), abituata da sempre e per forza alla tolleranza: per la conoscenza diretta delle alterne vicende della fortuna, della repentinità dei cambiamenti della vita… proprio come del mare. Un popolo di navigatori e di commercianti -i genovesi- oculati e riservati… un approdo forse ideale (come per Venezia del resto) per chi in fuga lo era da duemila anni. In Italia gli Ebrei arrivarono sia dall’Ovest (i Sefarditi cacciati dalla Spagna) che dall’Est (gli Askenaziti dei pogrom russi) e molti, non a caso, si stabilirono nelle città di mare.

Onore a Livorno, per altro, che mai istituì i Ghetti.

E mi viene in mente la considerazione di Simon Wiesenthal sul crimine -non minore- dei nazisti,  per aver privato il mondo di così tanti talenti,  la cui unica colpa era di essere ebrei.

Luzzati era sopravvisuto (in esilio, ma non in un lager) moltissimi altri no… si era salvato anche suo zio, Primo Levi, che invece il lager lo aveva vissuto e raccontato; si era salvato anche Wiesenthal, che passò la vita a cercare i carnefici del suo popolo.

Ed entrambi -Wiesenthal e Levi- non riuscivano più a gioire della vita.

Invece Lele Luzzati no; la sua opera è per me proprio questo: un grandioso inno alla vita, alla vita come dovrebbe essere, alla vita come la vedevano  i bambini -come lui- prima di Hitler, alla vita che infine ritorna sulla barbarie, la vita che ognuno dovrebbe avere o almeno sognare.

Le opere di Luzzati hanno incrociato varie volte la mia strada, dal Teatro di Verezzi (dove vive oggi mio padre) ai lavori dello Stabile di Genova e a quello suo “instabile” della Tosse (dove spesso i costumi erano di mia zia Andretta), dal logo del Palio di Asti alle figure su compensato per il rinnovato Teatro di Alba…

Luzzati l’ho incontrato di persona solo recentemente a La Court, per l’inaugurazione del Parco che aveva creato, trascinato lì dall’entusiasmo della famiglia Chiarlo e di Giancarlo Ferraris. L’ho rivisto a Calosso per il conferimento della cittadinanza onoraria (la sua famiglia era sfollata proprio lì). Entrambe le volte mi fece l’impressione di un hobbit (proprio come Romano Levi) solo troppo alto, un po’ sperduto, un po’ assente tra queste colline senza mare, assorto probabilmente in qualche visione immaginifica, che di lì a poco avrebbe trasferito su carta.

In casa ho un suo teatrino con la mia fiaba preferita, Alice, alla festa del non-compleanno… ho usato questo spunto per dedicargli un editoriale di qualche anno fa.

Perché Luzzati, proprio come Lewis Carroll, sapeva entrare nello specchio dei nostri sogni, costruire mondi al contrario, perdersi nella fantasia e magari -a volte- anche renderci felici.

L’ultimo lavoro è stato per il Festival di Sanremo: ancora Liguria, ancora mare.

E nel mare, proprio come De André,  lo voglio pensare oggi; come nel manifesto per i 20 anni del festival di Verezzi: un teatro piccolo lassù in alto sulla roccia… e davanti una grande tavola blu che si perde all’orizzonte.