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Di Monika Bulaj e altre storie

Pietro GiovanniniOriginariamente pubblicato nel giugno 2005

Per me Monika Bulaj sono una tavola spessa di legno e una stufa che non vuole partire, sono un funerale e una minestra che brucia sul fuoco.

Che si trovi ad Asti o a Baku, sarà sempre la stessa storia: Monika arriva tardi, ha sempre fretta e mentre stai pensando a cosa fare con lei, già se ne sta andando via.

E dietro di sé, proprio come la luce remota di una stella, ci lascia solo le foto.

Per me Monika Bulaj sono una cena da Gemma e una sveglia alle 4 del mattino.

Sono due occhi polacchi di ghiaccio e fuoco, occhi che hanno visto e sanno guardare e conoscono bene la fatica di raccontare, che hanno viaggiato senza mai farci l’abitudine, che hanno vissuto mille vite, mille razze, mille credo più antichi del mondo: le preghiere di mille popoli, fragili come pietra, antichi come l’alba e leggeri come acqua che sale in cielo.

Da ragazza Monika faceva la skipper sul Baltico, oggi è fotografa. Ma se fosse un falegname o un giardiniere non cambierebbe nulla: lei racconterebbe col legno o con le foglie.

Non si può vedere davvero una sua mostra, tutta una mostra di Monika Bulaj, 300 fotografie o più: è troppo! Ti senti di un’ignoranza abissale, di una superficialità totale!

Una sua mostra è una Biblioteca; ogni foto, un Romanzo: e devi avere tempo – forse anni – per leggerlo tutto.¹

Ma forse la prima cosa che Monika ha imparato è che è impossibile raccontare tutto, quello che ho imparato io invece è che è impossibile raccontarlo meglio.

Le note/didascalie che accompagnano le sue foto sono molto distanti da un commento organico ad un qualcosa, che è spesso frutto del puro caso. Sono pensieri sfuggenti di chi conosce e ricorda una storia o mille storie, e altrettante geografie e ancora più villaggi e persone, bambini e animali, prati e giostre che si inseguono dal Baltico al Caucaso.

Sono le storie e le geografie di un’Europa martoriata dalle Guerre, ma più spesso dalle Paci: un’Europa che è per forza altra, perché soprattutto è altrove.

Non ci sono viaggi organizzati per il mondo della Bulaj, non esistono appuntamenti tranne quelli da mancare, e non ci sono strade o direzioni da prendere tranne quella dell’istinto… “a Sud di nessun Nord” ² (o meglio a Est di nessun Ovest) diventa così l’unica via che ci può davvero guidare in quest’Europa di popoli cancellati dalle carte e dispersi dagli eserciti, di chiese bombardate, di camposanti arati, di conversioni forzate, crociate e persecuzioni, dove tutte le città portano dieci nomi e cento lingue, dove vecchi e bambini sono stati divisi insieme alla terra sopra cui sono nati, perché non ci fosse più né casa, né storia, perché così morisse anche la memoria e il ricordo del ricordo.

Ma vecchi e bambini esistono ancora da qualche parte e se li incontrate e vi fermate ad ascoltare, possono ancora raccontare.

Le note/didascalie sono appunto il pensiero di chi si è fermato un’infinità di volte (sono quasi vent’anni che Monika si ferma), sono il rapido guizzo mentale che dura lo spazio di un click.

Perché c’è un mondo prima e uno dopo quel click: il mondo dei dimenticati, dei perdenti, dei vinti della storia e dei perduti della terra e poi c’è il mondo di Monika Bulaj, dove più nulla è davvero perso per sempre perché –finalmente– qualcuno lo ha raccontato.

Qualcuno si è fermato ad ascoltare.

Quest’altra Europa, povera e dimenticata è –e sarà sempre– fuori-moda e fuori-tempo, fuori dai telegiornali e dai piani di investimento, e fuori dalle agende e dalle agenzie, e da Schengen e dall’Euro. Un’altra Europa appunto… che è uscita bambina dal freezer del comunismo, ibernata quando non deportata, perseguitata, violentata, uccisa e imbastardita… ma che è riuscita a conservare intatta dentro di sé la purezza del diamante nel fuoco.

Gli Hutzuli e i Ruteni, i primi Rom e gli ultimi Ebrei Erranti, e i Tatari e i Lemki e i Vecchi Credenti e le altre mille Genti di Dio sfilano così oggi sotto i nostri occhi ancora con la loro storia, i riti, le credenze, le feste e i dolori.

Anche se non li avevate mai sentiti nominare prima, oggi essi non scompariranno più: ormai sono lì dentro, in quel click che partorisce una foto, in quegli occhi polacchi di ghiaccio e fuoco.

Se mai domani o tra mille anni, dove non hanno potuto Hitler e Stalin, riusciranno tv satellitari e jeans firmati, coca-cola e telefonini… beh ancora saranno le foto di Monika a raccontare e tradurre.

E ovunque si trovi oggi o ieri o domani Monika Bulaj, che sia in processione in un monastero lituano o dietro una carovana azera, che dorma sotto le stelle in Bielorussia o nel letto di casa mia, io dico qui la mia piccola preghiera perché Dio –e tutte le sue Genti e tutte le loro preghiere– le tengano una mano sopra la testa e proteggano sempre lei e la sua macchina fotografica.

Grazie Monika.

Grazie per aver smesso di fare regate. Grazie per esserti fermata dove il resto del mondo manco ci passa vicino.

Grazie anche per esserci svegliati alle 4 di mattina: grazie anche solo di questo.

 

 

¹ La mostra – imperdibile – è “Genti di Dio, viaggio nell’altra Europa”.

² La mostra è stata esposta a Palazzo Ottolenghi, in occasione del festival “A Sud di Nessun Nord” appunto.