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Braccia rubate all’agricoltura… era una rubrica di “Cuore”, che prendeva di mira persone considerate importanti, ma che in realtà nella loro vita avevano fatto poco o nulla; il modo di dire sottointende un evidente disprezzo per l’attività agricola, vista come l’ultima spiaggia prima della disoccupazione. Si è visto come è finita con le meraviglie dell’industria, con la fabbrica come ultima frontiera del progresso e dello sviluppo sociale. Oggi sono in molti a fare un passo indietro e l’agricoltura torna volentieri a rubare braccia ormai considerate in esubero in altri settori. Peccato che alcune altre restino attaccate ai braccioli delle rispettive poltrone, magari di europarlamentari, presidenti di commissione, sottosegretari ecc.
In questa chiave è bene leggere il 1997 appena passato: una caporetto che ha colpito praticamente tutti i settori, escluso per fortuna il vino: dalla carne al latte, dalle olive al riso non c’è davvero di che gioire. Questo, aldilà della civiltà delle singole proteste, evidenzia indiscutibilmente una totale assenza di strategia del Paese Italia, sia nei confronti degli altri Paesi, sia al suo interno: è possibile che gli unici incentivi del governo debbano essere quelli sulle automobili (ma guarda tu che caso!), che non esista mai una visione ed una volontà di puntare su di un settore, che quando è appena-appena valorizzato, ci dà frutti incredibili? Il discorso sarebbe lungo, resta il paradosso della mucca pazza che ha messo in crisi la carne italiana in barba a qualsiasi logica, resta l’idea di eliminare testina, midollo e cervella delle stesse, mettendo a rischio una parte importante del nostro patrimonio gastronomico, resta l’inconsistenza dei nostri rappresentanti a Strasburgo, resta oggi la crisi del riso (va bene la libera concorrenza, compriamo pure il riso cinese, ma sul nostro perché almeno non scrivere grande così Made in Italy¹, che per la moda funziona così bene?). Di fatto oggi più che di braccia rubate all’agricoltura sarebbe meglio parlare di agricoltura rubata dalle braccia (altrui).
Eppure tutti oggi dicono che la sfida definitiva è quella della qualità: beh sulle nostre tavole, questa sfida l’abbiamo vinta da un pezzo, almeno da quando abbiamo vinto la fame. Coraggio: compriamo italiano, e paghiamolo per quello che vale, iniziando dal riso.
¹ Come ho già detto: poche idee, in compenso fisse! la sfiducia nei burosauri di Bruxelles e nelle lobby europee non mi è mai passata. L’assenza di un Made in Italy agroalimentare (inteso come marchio di qualità da valorizzare ma soprattutto difendere) permane e ogni governo che abbiamo la fortuna di infliggerci si sbraccia in cento convegni e poi cala le brache sul cioccolato, come sul parmigiano. Pizza, spaghetti, pesto, mozzarella (giusto per citare le prime che mi vengono in mente) sono parole italiane per prodotti italiani che invece vengono fatti (ma più spesso contraffatti) in mezzo mondo. Nessuno si rende conto delle potenzialità di una politica economica che ne difenda la qualità come il nome e ne impedisca lo sfruttamento gratuito all’estero? Caro Carlin, tu che ormai frequenti l’alta politica, questo non sarebbe forse più urgente di 1000 presìdi, tipo quello (vero!) sul Pistacchio Afghano, giusto per citarne uno imperdibile?